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Proposizione 177

Compito della nostra comunità cristiana è incontrare gli uomini in carne ed ossa con la preferenza per gli ultimi, gli ammalati, i disperati, i dimenticati, “coloro che non hanno da ricambiarci” (cfr. Lc 14,14), quelli che Gesù ha privilegiato, proclamandoli beati e primi destinatari del Regno. La Chiesa in rapporto agli ammalati, mutuandoli dall’atteggiamento di Gesù nel Vangelo, ha due gesti fondamentali da imitare: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36), ovvero la consapevolezza di essere misurati sull’amore, e l’icona del Buon Samaritano (cfr. Lc 10,25-37), cioè la prossimità che sa prendersi cura.

Nelle nostre Parrocchie dobbiamo formare tutti i battezzati a farsi prossimi, ad andare a visitare gli ammalati, non solo come forma di buona educazione, né come possibilità di tacitare la propria coscienza e, quindi, per sentirsi un po’ più buoni, ma come profonda partecipazione al mistero della malattia, perché il malato è sacramento di Cristo, che ripete a ciascuno: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Gesù si identifica profondamente con chi è malato: andare a trovarlo, per noi, significa molto più della sola vicinanza fisica e anche molto più del solo supporto psicologico. La vicinanza, l’esserci, la sensibilità di usare poche parole, quelle giuste, bastano: l’immagine è quella di Maria sotto la croce, che non dice parole ma c’è. La forza di essere accanto al sofferente è una forza di consolazione. C’è una solitudine che ogni malato ha, perché nessuno può sostituirsi alla sua dura prova, però si può stare accanto a lui; ma anche chi sta accanto è solo ed impotente, perché non ha strumenti che possano togliere la malattia di chi soffre: queste due solitudini diventano una consolazione, si abitano reciprocamente, diventano relazione profonda e nuova, orizzonte che dà un senso diverso alla sofferenza.

Ogni volta che andiamo a visitare un ammalato portiamo la forza salvifica, la capacità di mutare il male in bene, la capacità di annunciare la vittoria di Cristo sul male e sulla morte, doni che ci vengono dati da Cristo stesso nel Battesimo.

Per noi stare accanto a chi è malato significa veramente portare una forza nuova di salvezza, di cui non vediamo subito l’effetto, ma siamo sicuri che con la nostra presenza si apre una porta alla speranza del malato: nella sua solitudine c’è un nuovo abitante, uno che ha portato un senso diverso per la sua vita ed il suo dolore, aprendo il cuore alla speranza.

Se c’è un luogo vero per cogliere meglio chi siamo e come siamo, quello è il letto di un ammalato, perché la malattia è il luogo rivelatore del senso stretto della nostra umanità. Ogni vera consolazione, ogni autentica presenza cristiana accanto al malato fa bene non solo a lui, ma in primo luogo a chi si reca a visitarlo. Noi impariamo dai malati, perché essi sono soggetti di pastorale: la nostra non deve essere, infatti, una pastorale per i malati, ma una pastorale con i malati.

Dalla icona del Buon Samaritano ci viene un’altra sollecitazione: è la comunità cristiana nel suo insieme che deve farsi carico di questa sensibilità, non basta l’azione dei singoli. Gli atti che il Buon Samaritano pone in essere sono azioni che le nostre comunità cristiane nel loro insieme possono e debbono compiere. Per questo è necessario imparare a lavorare in rete, coordinati dall’Ufficio di Pastorale Sanitaria, perché la nostra sia sempre più una Chiesa in missione, che sappia cogliere i bisogni e conoscere le reali situazioni di tutti gli ammalati del territorio.