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Proposizione 137

Una colpa, purtroppo, frequente nella nostra Chiesa è l’omissione. Quante volte accade nelle comunità di trascurare una situazione di bisogno, di far finta di non sentire il grido di aiuto di qualcuno e, magari, ci si è voltati da un’altra parte per non vedere oppure abbiamo cambiato strada per non intercettare il bastonato dalla vita, che si aspetta da noi una mano tesa. È la cultura dell’indifferenza da cui siamo influenzati che, a volte, ci rende incapaci di vera compassione e lenti nel rispondere a una situazione di bisogno, qualsiasi essa sia. Papa Francesco nella Lettera Enciclica “Fratelli tutti” riprende la parabola del Buon Samaritano per ricordarci, attraverso il protagonista, la compassione e la tenerezza di Dio a cui continuamente dobbiamo richiamarci, per dirci che la fraternità è la migliore possibilità per crescere e vivere come persone credenti e come comunità, per aiutarci a pensare a noi stessi e agli altri come a fratelli che vivono nella stessa casa comune. Il viandante che scendeva da Gerusalemme a Gerico, lasciato moribondo ai margini della strada, rappresenta per noi oggi l’umanità del nostro territorio ferita ed abbandonata tra le “dense ombre” che gravano su di essa[1]. È l’immagine dei tanti uomini e donne che subiscono povertà, fame, oppressione, sfruttamento, violazione dei diritti umani, sopruso, umiliazione, tratta, schiavitù, razzismo, migrazione, emarginazione, ingiustizia … Il Buon Samaritano raffigura per noi il modello da seguire nella nostra azione: è l’esempio di chi ascolta il grido del bisogno e si muove per aiutare; è colui che sa vedere l’altro nella sua necessità perché lo guarda con gli occhi del cuore e, perciò, osa amare; è colui che sa donare del suo tempo per farsi prossimo; è colui che si fa incontro per prendersi cura del debole di diversa etnia o religione; è colui che si fa dialogo e relazione per includere altre persone nel compiere il bene. All’amore e alla misericordia non importa il popolo di appartenenza o la provenienza di un uomo ferito perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; è l’amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità»[2]. Il fratello da sostenere non è definibile né programmabile: è semplicemente chi incontriamo nelle nostre giornate normali e che ci rivolge la sua richiesta di aiuto nel suo bisogno. Si tratta, allora, di fare nostri i verbi usati da Gesù, Buon Samaritano: ascoltare, vedere, avere compassione, avvicinarsi, farsi prossimo, versare l’olio ed il vino della grazia, fasciare le ferite, caricare sul proprio giumento, portare nella locanda, prendersi cura, estrarre due denari. «Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani e tiriamole a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo»[3].

[1] Cfr. Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti, nn. 54 e 72.

[2] Ibidem, n. 62.

[3] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, n. 15.