La Costituzione conciliare Gaudium et Spes ci parla di una Chiesa solidale con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono»[1]. La Chiesa è formata da uomini e da donne che hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti e per questo «la comunità dei cristiani si sente realmente ed intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia»[2]. Non viviamo più immersi in un cristianesimo sociologico in cui l’essere cristiano e l’essere cittadino coincidevano; in cui la Parrocchia era la “fontana del villaggio”, il centro delle nostre cittadine; il tempo in cui si nasceva e si moriva in un ambiente naturalmente cristiano, che, in quanto tale, trasmetteva linguaggi e visioni unitari dell’esistenza. Se riflettiamo attentamente, di tutto questo rimane ben poco nella nostra realtà. Paradossalmente resta, comunque, in molti la nostalgia di un passato ideologizzato, rispetto al quale il confronto con il presente rischia di essere motivo di amarezza, di chiusura, di un cammino con lo sguardo rivolto al passato. C’è un’immagine biblica che esprime bene il modo in cui buona parte delle nostre comunità sta camminando ancora: la moglie di Lot, che non ha avuto la forza di guardare avanti, ma procedeva con lo sguardo rivolto all’indietro. Risultato? Divenne una statua di sale (cfr. Gen 19,17-26).
Una Chiesa arroccata in se stessa, con il solo desiderio di auto-preservarsi e di creare barricate in difesa delle sue posizioni, non è una Chiesa in cammino o, per dirla come Papa Francesco, “una Chiesa in uscita”[3]. Umanamente parlando, quando si presentano nuove sfide, difficili addirittura da comprendere, la reazione istintiva è chiudersi, difendersi, alzare muri, stabilire confini invalicabili. Noi cristiani, però, abbiamo il dovere di sottrarci a questa tentazione e riusciremo a farlo nella misura in cui diventeremo davvero consapevoli che lo Spirito di Dio è attivo ed opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma nel mondo, proprio dentro i cambiamenti e le sfide che ci vengono proposti.
In questa prospettiva, Papa Francesco, durante il suo intervento al Convegno della Chiesa italiana di Firenze, rivolse questo invito: «La Chiesa italiana si lasci portare dal soffio potente e per questo, a volte, inquietante dello Spirito. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e dalle tempeste. Sia una Chiesa libera ed aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa»[1].
Non basta più assumere l’atteggiamento delle sentinelle che, rimanendo dentro la fortezza, osservano dall’alto e giudicano ciò che accade intorno. Oggi bisogna coltivare l’attitudine degli esploratori che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di sporcarsi le mani e di ferirsi. Come discepoli del Signore dobbiamo essere convinti che non si esce soltanto per dare un’occhiata curiosa senza coinvolgimento e neppure si esce per riportare tutti dentro tramite strategie di proselitismo. Piuttosto, si esce per rimanere “fuori” o, meglio, per rimanere in “diaspora” perché l’ambiente vitale della Chiesa è il “fuori”. Abitare le periferie esistenziali e sociali, dove si trovano gli uomini e le donne in carne ed ossa, così come sono: questo è il nostro compito per il futuro.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 1.
[2] Ibidem, n. 1.
[3] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 20-24.
[4] Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015.