Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si è fatto povero per voi, affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventare ricchi» (2Cor 8,9). Papa Francesco ribadisce questo concetto affermando: «La povertà si impara toccando la carne di Cristo povero negli umili, nei poveri, negli ammalati, nei bambini»[1]. La Chiesa deve agire come Cristo, il suo stile deve essere modellato su quello del suo Signore: diffondere, con la sua vita, umiltà e abnegazione. «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro la sua prima misericordia. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto un’opzione per i poveri intesa come una forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la sua tradizione […]. Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del “sensus fidei”, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro»[2].
Nel nostro territorio quanti “ultimi della fila”, quanti poveri di mezzi, quante persone che non contano nulla, quanti poveri in spirito, quanti piccoli indifesi: sono loro i destinatari della misericordia di Cristo, attraverso l’opera della nostra Chiesa. Gesù, durante il suo ministero, ha continuamente sollecitato la pratica della misericordia, e, descrivendo il giudizio finale, ha annunciato che in quel giorno giudicherà tutti gli uomini in base alle opere di carità che avranno compiuto verso i più piccoli (cfr. Mt 25,31-46): non basterà, quindi, alle nostre comunità manifestare la fede creduta e celebrata, saranno necessarie le opere di misericordia, che la confermano e la rendono viva.
[1] Francesco, Udienza ai partecipanti all’Assemblea plenaria dell’Unione Internazionale delle Superiori Generali, 8 maggio 2013.
[2] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 18.
«In una società dell’abbondanza, la povertà non si misura solo in base al reddito di cui si dispone o al livello di vita di cui si gode. Ma vi è pure una povertà che si riferisce alle condizioni di vita, al fatto di sentirsi respinti dall’evoluzione, dal progresso, dalla cultura, dalla responsabilità. La povertà non è solo quella del denaro, ma anche la mancanza di salute, la solitudine affettiva, l’insuccesso professionale, l’assenza di relazioni, gli handicap fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le frustrazioni che provengono da una incapacità di integrarsi nel gruppo umano più prossimo. In definitiva, il povero è colui che non conta nulla, che non viene mai ascoltato, di cui si dispone senza domandare il suo parere e che si chiude in un isolamento così dolorosamente sofferto che può arrivare talora ai gesti irreparabili della disperazione»[1].
La nostra Chiesa deve diventare strumento di Dio per la liberazione dei poveri ed ascoltare il loro grido di aiuto. La fedeltà a Cristo ed al suo Vangelo deve spingere ogni suo componente ad attivare azioni che vadano contro le logiche di potere, che escludono da uno sguardo di interesse le persone che non contano nulla. Per l’uomo contemporaneo, molte volte corrotto dall’avidità del denaro e del successo, «non esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo»[2].
Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium dà a queste azioni un nome preciso: inclusione sociale dei poveri[3] per un nuovo umanesimo, capace di esprimere la sua novità e la sua validità oggi rispetto sia all’esclusione dalla vita sociale, ma anche rispetto alla logica della separazione e della contrapposizione. Il principio da applicare è quello evangelico dell’incontro. Al n. 272 di Evangelii Gaudium ci viene ricordato che fuggire gli altri, nascondersi e negarsi alla relazione sono modi attraverso i quali si sceglie di vivere una vita comoda e non evangelica. Queste modalità sono espressione di una mentalità mondana molto diffusa, che cerca solo il possesso e, se non riesce a dominare, mette in atto strategie di rifiuto ed eliminazione.
L’emarginazione dei poveri è frutto di questo modo di agire. Cosa viene chiesto alla nostra Chiesa? Di vivere sostanzialmente il Vangelo e di assumere lo stesso atteggiamento di Cristo: vale a dire, di uscire dalle nostre comode sacrestie per ricercare il bene e la realizzazione di tutti[4], assumendo il punto di vista dei poveri ed ascoltando il loro grido di aiuto, come fa Dio. La loro inclusione per la nostra Diocesi non è un’operazione di carattere sociologico, bensì è l’impegno a restituire ad essi, nel nostro territorio, la dignità che gli è stata sottratta.
[1] Paolo VI, Lettera alla 57a Settimana Sociale di Francia (24 maggio 1970) in L’Osservatore Romano del 2 luglio 1970.
[2] Francesco, Messaggio per la Quaresima 2017.
[3] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 186-216.
[4] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 39.
«Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: “Tu siediti qui, comodamente”, e al povero dite: “Tu mettiti lì, in piedi”, oppure: “Siediti qui ai piedi del mio sgabello”, non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? Voi, invece, avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono forse loro che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? Certo, se adempite quella che, secondo la Scrittura, è la legge regale: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, fate bene. Ma se fate favoritismi personali, commettete un peccato e siete accusati dalla Legge come trasgressori» (Gc 2,1-9).
Quante ingiustizie vengono ancora perpetrate nelle nostre comunità a motivo della preferenza di persone! C’è da lavorare ancora molto per far sì che l’uguaglianza e la fraternità siano le migliori possibilità da applicare per crescere e vivere come persone e come cristiani, così da aiutare noi stessi a pensarci come fratelli nella stessa casa comune. Il primo nostro impegno come credenti è quello di collaborare per costruire un popolo capace di accogliere le differenze e rispettare la bellezza e la dignità di ciascuno. In tal modo si forma una comunità più giusta, «in nome di Dio che ha creato tutti gli essere umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace»[1].
[1] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti, n. 285.
«L’azione caritativa può e deve abbracciare tutti gli uomini e tutte quante le necessità. Ovunque vi è chi manca di cibo, di bevanda, di vestito, di casa, di medicine, di lavoro, di istruzione, dei mezzi necessari per condurre una vita veramente umana […], la carità cristiana deve cercarli e trovarli, consolarli con premurosa cura e sollevarli porgendo loro aiuto […]. Affinché tale esercizio di carità possa essere al di sopra di ogni critica e appaia come tale, si consideri nel prossimo l’immagine di Dio secondo cui è stato creato, e Cristo Signore, al quale è veramente donato quanto si dà al bisognoso; si abbia estremamente riguardo della libertà e della dignità della persona che riceve l’aiuto; la purità d’intenzione non sia macchiata da ricerca alcuna della propria utilità o da desiderio di dominio; siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli effetti, ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in tal modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi»[1].
L’azione della Caritas diocesana e delle singole Caritas parrocchiali deve essere improntata a questi principi. Si tratta di declinare anche nella nostra terra in tutte le situazioni particolari e nelle diverse modalità di relazione con i poveri ed i bisognosi la parola “Amore”, che Papa Francesco abbina con un aggettivo che la qualifica e la rende estremamente concreta: “Amore sociale”. È una forza che non ha bisogno di programmi o di indicazioni cattedratiche, né tanto meno di futili ed inutili burocrazie, che spesso scoraggiano gli stessi operatori della Caritas.
L’amore sociale è «la forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo di oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici»[2]. L’amore sociale ci permette di progredire verso una civiltà alla quale tutti siamo chiamati. La carità è un amore efficace che, con il suo dinamismo, è capace di creare strade nuove per raggiungere tutti, aiutandoci a scoprire, vivere e testimoniare il Vangelo.
Ad ognuno di noi viene chiesta una maggiore attenzione verso chi ci sta accanto, cogliendo i segni di disagio ed offrendo vicinanza morale e concreta.
Da qui l’impegno a costruire legami sociali, mettendoci in gioco per realizzare opere di solidarietà e di prossimità, di sostegno e di fraternità. Questo si può realizzare. «È possibile cominciare dal basso e, caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano»[3].
La carità vera deve animare le nostre azioni: una carità che trascenda la pura dimensione filantropica e che trova la sua fonte in Dio, da amare sopra ogni cosa, e che ha come oggetto il prossimo, da amare come noi stessi. Non importa se ai più questo progetto per lo sviluppo dell’umanità verso la fraternità universale possa sembrare «un’utopia d’altri tempi […], fantasie» perché «riconoscere ogni essere umano come fratello o sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie»[4]. Noi «non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo»[5]: avere Dio nel cuore e farci prossimi all’umanità per creare legami di fraternità.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Apostolicam Actuositatem, n. 8.
[2] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti, n. 183.
[3] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti, n. 78.
[4] Ibidem, n. 180.
[5] Ibidem, n. 190.
Per la nostra Chiesa di Oppido Mamertina-Palmi si presenta oggi una grande sfida. Il nostro territorio, non privo di positività che spesso stentiamo a far emergere, è una terra piena di fragilità e di forme innumerevoli di disagio, di periferie esistenziali create dai “briganti di turno”. Compito della nostra comunità ecclesiale è quello di mettere queste periferie al centro del nostro impegno: siano esse i nuovi luoghi dell’annuncio cristiano di liberazione, che non intendono sostituire totalmente ma integrare e completare quelli tradizionali della nostra pastorale. Le cinque vie tracciate dal Convegno Ecclesiale di Firenze possono segnare il percorso del nostro cammino nel vivere la carità.
[1] Francesco, Discorso al Convegno della Chiesa Italiana di Firenze, 10 novembre 2015.
La fede ci dona la certezza che, in Gesù di Nazareth, Dio si è fatto vicino ad ogni uomo. Egli si presenta come proposta per la libertà e la responsabilità dell’uomo e anche come dono che sostiene la possibilità di rispondere all’amore di Dio. Ma non tutti corrispondono a quest’amore del Padre e preferiscono rimanere lontani da Lui.
Dai dati raccolti nella Fase Antepreparatoria del Sinodo si evince che c’è bisogno, nella nostra realtà, di una Chiesa missionaria che sappia dialogare con i lontani e si mostri presente ed attenta, là dove è necessario, così da far sentire la sua voce: nelle famiglie ferite, accanto agli emarginati, nella vita dei tanti giovani che vogliono mantenersi distanti dalle comunità ecclesiali, nella scuola. Allo stesso tempo essa deve rimanere aperta ed accogliente, mostrando il suo vero volto, che è amore vissuto, senza pregiudizi o chiusure di sorta, perché chi viene a contatto con la comunità cristiana si trovi a proprio agio e si senta a casa sua.
In questo senso, ricordiamo e viviamo l’esortazione di San Paolo: «Ricordatevi, fratelli, che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora, invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli Apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,12-22).
Pertanto, la salvezza offerta da Dio in Cristo è per tutti gli uomini, vicini e lontani: alla nostra Chiesa l’onere dell’annuncio e il dovere dell’accoglienza; agli uomini ed alle donne della nostra terra la possibilità dell’ascolto e della loro risposta salvifica.
Per il cristiano la possibilità di lavorare è un dono di Dio e il lavoro è concepito come un diritto e un dovere: è un diritto perché permette all’uomo di vivere liberamente e autonomamente senza pesare sulla società; è un dovere perché, con il lavoro, l’uomo partecipa all’opera creatrice di Dio e all’opera salvifica di Cristo, cooperando nella trasformazione del mondo. Attraverso il lavoro, infatti, Dio chiama l’uomo a costruire un mondo nuovo e a contribuire all’affermarsi del suo Regno sulla terra. Ogni cristiano è chiamato a diventare anche con il proprio lavoro fermento nei diversi ambienti in cui vive ed opera e a trasformarli perché diventino sempre più conformi al disegno di Dio.
Con la sua attività lavorativa il cristiano non deve tendere ad affermare il proprio egoismo e la propria potenza, ma contribuire alla crescita e al consolidamento del bene comune. Per questo il lavoro non deve essere fonte di ansia e di preoccupazione, bensì un mezzo per promuovere la dignità dell’uomo e il bene della società. In quest’ottica, l’attività lavorativa non può assorbire completamente le energie delle persone e renderle schiave, ma deve favorire una loro crescita umana e cristiana equilibrata.
Nelle nostre comunità cristiane, quindi, il lavoro e il giusto guadagno che ne deriva devono essere considerati un mezzo e non il fine della vita. In tal senso, la Chiesa diocesana deve aiutare i credenti a crescere nella diffusione del Vangelo e nelle opere di carità verso i più bisognosi.
Poiché nella prospettiva cristiana il lavoro non deve assorbire completamente le energie dell’uomo, particolare importanza deve assumere, per le nostre comunità, il rispetto del riposo. Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa, il periodo di riposo deve essere garantito e promosso dalla società civile per non ridurre tutta l’attività dell’uomo alla produzione di beni che incrementano soltanto un consumismo sfrenato.
Il tempo libero può venire dedicato ad attività ricreative ed alla formazione culturale, a rinsaldare i vincoli di amicizia e familiari, ad opere di carità nel volontariato, e diventare, così, occasione di crescita umana e spirituale della persona. Nella vita di crescita della fede il tempo del riposo assume un significato del tutto particolare: il terzo comandamento del Decalogo comanda di santificare le feste, cioè di dedicare il tempo del riposo al Signore. Il settimo giorno della settimana è, per gli Ebrei, il sabato, a ricordo del riposo di Jahvé al termine della creazione, mentre per noi il giorno di festa e di riposo è quello che segue il sabato, in ricordo della Risurrezione di Cristo. I primi cristiani lo chiamavano “l’ottavo giorno” e, con il passare del tempo, diventò il primo giorno della settimana, il più santo, il giorno del Signore.
La domenica è diventata, così, il simbolo della nuova creazione, generata dal sacrificio in croce e dalla Resurrezione del Figlio di Dio incarnato, e l’occasione per vivere nella sua pienezza il mistero della salvezza, che trova il suo compimento nell’Eucaristia celebrata.
Per i nostri credenti sia il lavoro che il tempo di festa possono e debbono diventare motivo di crescita umana ed arricchimento spirituale: li aiutano a vivere la propria vocazione di figli di Dio e la propria fede cristiana. Ogni comunità parrocchiale, dunque, formi i suoi membri, con adeguata catechesi, affinché siano in grado di difendere il loro diritto al tempo del riposo e della festa, reagiscano di fronte ai tentativi di prevaricazione e, a nome personale e della Chiesa, alzino la voce e denuncino tutti coloro che questo tempo non intendono riconoscerlo.
«Il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per l’uomo: un bene utile, degno di lui, perché adatto appunto ad esprimere e ad accrescere la dignità umana. La Chiesa insegna il valore del lavoro non solo perché esso è sempre personale, ma anche per il carattere di necessità. Il lavoro è necessario per formare e mantenere una famiglia, per avere diritto alla proprietà, per contribuire al bene comune della famiglia umana. La considerazione delle implicazioni morali che la questione del lavoro comporta nella vita sociale induce la Chiesa ad additare la disoccupazione come una vera calamità sociale, soprattutto in relazione alle giovani generazioni»[1].
L’assenza di lavoro è la grande emergenza sociale che sta spopolando la nostra Diocesi e la Calabria intera. Grandi e piccoli paesi perdono intere giovani famiglie, che sono costrette ad emigrare per poter vivere. La Chiesa diocesana, oltre che con il “Progetto Policoro”, già attivo nel nostro territorio ma che merita maggiore attenzione da parte delle comunità parrocchiali, può favorire la creazione di opportunità lavorative con investimenti mirati e formazione specifica nelle aree riguardanti l’agricoltura, il turismo e l’artigianato, sfruttando le ampie potenzialità che possiede la nostra terra. È necessario, quindi, farsene promotori per sensibilizzare le comunità, affinché sostengano le imprese virtuose nate in seno alla nostra Diocesi.
[1] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 287.
Il lavoro è un tema centrale del pontificato di Papa Francesco che, nell’Evangelii Gaudium, qualifica con quattro termini: «libero, creativo, partecipativo e solidale»[1]. La concezione dell’uomo, dominante nella visione economica degli ultimi decenni, ha invertito l’equilibrio tra la dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro. Prioritario nel mondo finanziario era ed è ancora il raggiungimento dell’efficienza, del risultato, del profitto nel più breve tempo possibile; secondari risultano quindi gli orari di lavoro, la pressione sui lavoratori, il rispetto della loro dignità. Il lavoratore viene considerato, anche nella nostra terra, uno strumento, un mezzo per il raggiungimento del fine ultimo del profitto. All’origine di tutto questo c’è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano[2].
La prima essenziale opera delle nostre comunità è quella di formare i laici a una giusta visione antropologica, indispensabile per orientare il discernimento evangelico circa i comportamenti da assumere nei luoghi di lavoro e nel sociale. I laici, pertanto, siano essi datori di lavoro o dipendenti, devono mettere in atto scelte per edificare un mondo impregnato dai principi del Vangelo. Dalla difesa della dignità del lavoratore al rapporto tra lavoro e giustizia; dalla corruzione come male da sconfiggere alle forme buone di meritocrazia; dal rifiuto delle raccomandazioni alla fiducia verso i giovani lavoratori; dal rispetto delle leggi sulla sicurezza del lavoro (in particolare nell’ambito dell’edilizia) al pagamento dei contributi (con il rifiuto totale del lavoro in nero); dal giusto salario al rispetto delle ore lavorative: questi i temi su cui formare i laici con una catechesi che conduca, poi, ad elaborare un’adeguata pastorale del lavoro, con la quale la nostra Chiesa potrà agire a diversi livelli:
[1] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 192.
[2] Cfr. Ibidem, n. 55.
L’eguale dignità delle persone richiede che si giunga a una condizione più umana e giusta della vita. Infatti, le troppe diseguaglianze economiche e sociali suscitano scandalo e sono contrarie alla giustizia sociale e all’equità di trattamento degli uomini e delle donne del nostro territorio. Sono come delle ferite profonde inferte alla nostra gente che, troppo spesso, perde la speranza nel futuro.
Per curare queste ferite la nostra Chiesa si deve fare portatrice di un messaggio di amore e vicinanza a chi subisce torti senza avere la possibilità di difendersi, ma soprattutto deve ribadire alcuni principi che da duemila anni rappresentano il cuore dell’insegnamento cristiano: il primo di questi è che il lavoro è al servizio dell’uomo e non il contrario. In una lettera scritta da Giorgio La Pira ad Amintore Fanfani si legge: «Caro Amintore, tutta la vera politica sta qui: difendere il pane e la casa della più gran parte del popolo italiano […]. Il pane (e quindi il lavoro) è sacro: la casa è sacra: non si tocca impunemente né l’uno né l’altra. Questo non è marxismo: è Vangelo»[1]. Il lavoro è sacro e occuparsi di esso non significa essere marxisti, ma significa prendere molto sul serio il Vangelo. È credere, prima di tutto, a quello che Gesù ci ha insegnato e cioè che occorre sempre dare la giusta mercede agli operai «perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento» (Mt 10,10).
Questo non vuol dire soltanto dare un giusto salario, ma soprattutto riconoscere, nella sua totalità, la dignità umana di ogni lavoratore che, prima di essere tale, è una creatura voluta da Dio a sua immagine e somiglianza, chiamata a santificare la propria vita anche attraverso il lavoro. Troppo spesso nella nostra terra questo insegnamento viene calpestato: non soltanto nei confronti degli immigrati, stagionali o stabili, che lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno negli agrumeti o nelle piantagioni di kiwi per una misera paga, ma anche nei confronti di giovani uomini e donne, padri e madri di famiglia, che, pur di lavorare e mantenere i propri cari, accettano stipendi da fame senza veder rispettata la loro dignità. Il tutto nell’indifferenza generale: si conosce ogni cosa, ma nessuno interviene.
La nostra comunità diocesana deve assumere la sua dimensione profetica: alzare la voce per la salvaguardia e la valorizzazione della persona umana: essa è intangibile non perché ha un valore economico, ma perché è sacra agli occhi di Dio. La difesa della vita di un uomo o di una donna viene prima di tutto: essa è incalpestabile sia davanti ai progressi della scienza e della tecnica e sia davanti al sistema economico-produttivo, che non può ridursi a considerare l’uomo o la donna come un semplice ingranaggio di un meccanismo atto a produrre un profitto. La nostra Chiesa locale sia mossa sempre e comunque da questo sacro principio: la difesa della dignità di ogni uomo e di ogni donna che vivono nel nostro territorio.
[1] Lettera di Giorgio La Pira ad Amintore Fanfani del 28 febbraio 1955.
«È proprio della persona umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura […]. Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza ed il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano»[1]. L’annuncio del Vangelo di Cristo raggiunge l’uomo nella sua propria cultura, che permea la sua maniera di vivere la fede e, a sua volta, da essa è progressivamente modellato.
Oggi, in un mondo scristianizzato come il nostro, è necessario svolgere questo annuncio, passando da una pastorale di conservazione dell’antica tradizione cristiana plurimillenaria a una pastorale di nuova evangelizzazione, che tenga conto delle mutate condizioni culturali, perché «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta»[2]. Compito essenziale della pastorale della cultura è quello di restituire l’uomo nella sua pienezza di creatura, costituita a immagine e somiglianza del suo Creatore, allontanandolo dalla tentazione di considerarsi autonomo ed indipendente da Lui, come sta accadendo anche nella nostra terra. Evangelizzare, per la nostra Chiesa, significa riportare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità della Piana, e, con il suo influsso, tentare di trasformare dal di dentro questa stessa umanità: si tratta di rendere nuovi i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita, che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza. Occorre, dunque, rivitalizzare non in maniera decorativa, quasi passando una mano di vernice superficiale, ma in modo vitale e in profondità, fino alle radici, la cultura del nostro territorio, partendo dall’uomo e tornando sempre ai rapporti degli uomini tra di loro e con Dio. Solo così si potrà superare la rottura tra Vangelo e cultura, che è senza dubbio il dramma del nostro tempo.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, n. 53.
[2] Giovanni Paolo II, Lettera autografa di Fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura, 20 maggio 1982, in AAS, 74 (1982), pp. 683-688.
La scienza e la tecnica si sono rivelate nel corso del tempo mezzi meravigliosi per accrescere il sapere, il potere e il benessere degli uomini, ma il loro uso responsabile implica la dimensione etica delle questioni scientifiche. Spesso poste dagli stessi scienziati in cerca di verità, tali questioni mostrano la necessità di un dialogo tra scienza e morale. La ricerca della verità offre, dunque, nuove possibilità per una pastorale della cultura, orientata verso l’annuncio del Vangelo negli ambienti scientifici. È soprattutto il campo della bioetica a essere maggiormente interessato da questo annuncio.
La nostra Chiesa deve porre sempre uno sguardo attento alle questioni di bioetica a motivo della sua incidenza culturale, sociale, politica e giuridica. La bioetica rappresenta uno di quegli ambiti delicatissimi in cui si mettono in gioco i principi fondamentali dell’antropologia e della vita morale. Il ruolo dei cristiani è insostituibile per contribuire a formare, in seno alla società, in un dialogo rispettoso ed impegnativo, una coscienza etica e un senso civico adeguati al rispetto della dignità umana. Ciò richiede una formazione rigorosa sulle tematiche bioetiche sia per i sacerdoti che per i laici, impegnati in questo campo di capitale importanza in difesa della vita umana dal suo sorgere fino al suo naturale compimento.
In una cultura come quella odierna, contrassegnata dal primato dell’avere, dall’ossessione della soddisfazione immediata, dall’attrattiva del guadagno, dalla ricerca del piacere ad ogni costo, è sorprendente constatare lo sviluppo di un certo interesse per il bello. Le forme, che rivelano questo interesse, sembrano esprimere l’aspirazione che rimane, e che perfino si rafforza, verso il trascendente, che incanta l’esistenza e le apre la porta al di là di se stessa. La Chiesa lo ha intuito fin dalle sue origini e secoli di arte cristiana ne offrono una magnifica illustrazione: l’opera d’arte autentica è potenzialmente una porta d’ingresso per l’esperienza religiosa.
Riconoscere l’importanza dell’arte per inculturare il Vangelo equivale a riconoscere che il genio e la sensibilità dell’uomo sono connaturali alla verità e alla bellezza del mistero divino. Anche la nostra Chiesa locale si è comportata, lungo il corso della sua storia, come avvocata e protettrice della cultura e delle arti e molti artisti hanno trovato nel suo seno un luogo privilegiato di creatività personale. Questo ruolo ed atteggiamento della nostra comunità cristiana deve ritornare a essere quanto mai attuale, specialmente nell’ambito della letteratura, dell’architettura, dell’iconografia e della musica sacra. Un rapporto di fiducia con gli artisti, fatto di ascolto e di cooperazione, permette di valorizzare tutto ciò che educa l’uomo e lo eleva a un superiore livello di umanità, mediante una partecipazione più intensa al mistero di Dio, somma Bellezza e suprema Bontà.
Il patrimonio culturale della nostra Chiesa testimonia una feconda simbiosi tra cultura e fede. Esso costituisce una risorsa permanente per un’educazione culturale e catechetica, che unisce la verità della fede all’autentica bellezza dell’arte[1]. Frutti di una comunità che ha vissuto e vive intensamente la propria fede nella speranza e nella carità, questi beni cultuali e culturali della nostra Chiesa possono ispirare l’esistenza umana e cristiana degli uomini e delle donne del nostro tempo e, se ben conservate e curate, degli uomini e delle donne del futuro.
[1] Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 122-127.
Il mondo degli svaghi e dello sport, dei viaggi e del turismo costituisce una dimensione importante della cultura, nella quale la Chiesa è presente da molto tempo. Diventa perciò e, a pieno titolo, uno dei luoghi preminenti per una pastorale della cultura. Lo sport, in particolare, è un ambito sociale importante poiché favorisce a un tempo salute fisica e relazioni interpersonali, stabilendo legami e ideali forti. La pastorale dello sport, inoltre, intercetta il mondo della gioventù in un luogo suo proprio. Gli svaghi e lo sport creano un modo di essere, un sistema di riferimenti: una pastorale adeguata riuscirà a riconoscervi gli autentici valori educativi, come un trampolino di lancio per celebrare le ricchezze dell’essere creato a immagine di Dio e per annunciare, sull’esempio dell’apostolo Paolo, la salvezza in Cristo Gesù (cfr. 1Cor 9,24-27).
Nel contesto dello sviluppo del tempo libero e del turismo religioso, in modo particolare dei pellegrinaggi, alcune iniziative ci possono permettere di salvaguardare, restaurare e valorizzare il nostro patrimonio culturale religioso, nonché di trasmettere alle generazioni del futuro le ricchezze della nostra cultura cristiana, frutto di una sintesi armoniosa tra la fede e il genio del nostro popolo. A questo proposito, sembra opportuno promuovere ed incoraggiare alcune iniziative:
«Gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile sono consapevoli di non essere in grado, da soli, di costruire una vita capace di rispondere pienamente alle esigenze della natura umana e avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità, allo scopo di raggiungere sempre meglio il bene comune. Per questo essi costituiscono […] una comunità politica»[1]. «La comunità politica, realtà connaturale agli uomini, esiste per ottenere un fine altrimenti irraggiungibile: la crescita più piena di ciascuno dei suoi membri, chiamati a collaborare stabilmente per realizzare il bene comune, sotto la spinta della loro tensione naturale verso il vero e verso il bene»[2].
La presenza dei cattolici in politica si rende oggi necessaria perché i problemi, che condizionano lo sviluppo del nostro territorio, sono così gravi e allarmanti da richiedere che ogni area culturale impegni le sue migliori forze per la causa del bene comune. È vero che i nostri laici sono già impegnati in ambito socio-culturale: con la realtà associativa, rappresentata dai molti gruppi che operano all’interno delle Parrocchie e nel territorio diocesano; con la realtà del volontariato socio-assistenziale, che agisce nei campi di frontiera e, in parte o in tutto, supplisce alla mancanza delle istituzioni governative; con le molte figure impegnate nell’animazione dei giovani o a livello comunicativo o nell’assistenza agli anziani. Tuttavia, il nostro mondo cattolico sembra oggi soffrire di “mal di politica”: a un forte impegno in vari settori della società civile non sembra corrispondere una presenza altrettanto qualificata e incisiva proprio nella sfera politica, da cui maggiormente dipendono le sorti del nostro territorio, come se fare politica rappresentasse un peccato pubblico o un male assoluto. È bene che nelle nostre comunità si prenda coscienza che è necessaria una nuova missione dei laici in politica per uscire dall’irrilevanza decisionale e per colmare il vuoto di valori cristiani, determinato dall’abbandono dell’impegno diretto in ambito politico.
La ricostruzione civile e morale della nostra realtà non sarà possibile senza questo rinnovato impegno: la nostra società ha bisogno di ascoltare una voce cristiana e di vedere un’iniziativa politica all’altezza dei grandi principi ispirativi del Vangelo e della Dottrina Sociale della Chiesa. In questa direzione diventano necessari per il futuro della nostra pastorale ordinaria:
Il tutto tenendo presente il dettato del Concilio Vaticano II: «È di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in nome proprio, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori. La Chiesa, che in ragione del suo ufficio e della sua competenza in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti ed autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L’uomo, infatti, non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna»[3].
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, n. 74.
[2] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 384.
[3] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, n. 76.
La cultura ‘ndranghetista, che si è prodotta lungo il corso del tempo nel nostro territorio, influenza fortemente la vita sociale, basando il suo condizionamento sia sull’intimidazione e sulla forza delle armi che sul ruolo economico raggiunto attraverso il riciclaggio del denaro sporco: gli individui e le comunità, il mercato economico e la politica, le attività imprenditoriali e lo sport risentono inesorabilmente della sua presenza[1]. La sua logica è quella del “divide et impera”: l’isolamento di chi sarebbe disposto ad opporsi alla schiavitù mafiosa è il primo passo che viene compiuto. Per far questo qualsiasi mezzo è ritenuto lecito: il ricatto, la violenza fisica o morale, le minacce esplicite o con utilizzazioni di simboli (teste mozzate di maiali o di capretti, bossoli di pistola inviati per posta o lasciati sui cruscotti delle macchine o davanti l’uscio di casa, colpi di pistola sparati alle saracinesche delle attività commerciali o alle porte delle abitazioni, ecc.). Così la ‘Ndrangheta si è imposta ed ha prodotto, dal suo nascere, una serie di norme e di pseudo valori che hanno dato luogo ad un vero e proprio processo di istituzionalizzazione, che in molti dei nostri paesi è diventato la forma di regolazione sociale più efficace e importante. Tale regolazione di vita tende a sostituirsi a tutte le altre forme, anche a quelle statali[2]. Questa organizzazione malavitosa è riuscita a costruire un impero economico che dalla Calabria gli ha consentito di dilagare in tutta Italia e nel mondo intero, fino a farne la struttura mafiosa più potente al mondo[3].
La domanda che ci si pone è: come è stato possibile che una terra tanto ricca di tradizioni e di valori improntati al cristianesimo, come la nostra, abbia potuto far nascere e sviluppare un’organizzazione così contraria ai principi del Vangelo? La risposta non è né facile né scontata. La posizione della Chiesa nei confronti del fenomeno ‘ndranghetista non sempre si è contraddistinta per coerenza e fermezza. ‘Ndrangheta e alcuni membri della Chiesa hanno percorso un tratto della propria storia non solo non intralciandosi vicendevolmente ma, a volte, aiutandosi reciprocamente e ognuno per il proprio tornaconto: la ricerca del consenso ai fini del controllo sociale. La Chiesa continua ad essere nel nostro territorio una delle maggiori agenzie in grado di fornire consenso e, sicuramente, non si è resa conto di essere tirata in ballo in questo gioco di interessi da parte di un’organizzazione che ha finalità completamente opposte alle sue: tutto ciò fino ad un’epoca abbastanza recente.
Si è prodotto, dunque, una sorta di sincretismo di modelli culturali opposti, che ha portato alla commistione tra religione e ‘Ndrangheta. Anche oggi gli appartenenti a questa associazione mafiosa mostrano una forte dedizione verso la religione cattolica, partecipando ai suoi riti e alle sue cerimonie, mutuandone utilitaristicamente le simbologie e aderendo al suo sistema sacramentale. Battesimi, matrimoni, funerali, processioni appaiono essere, ancor prima che strumenti di salvezza e segni visibili di fede vissuta, eventi pubblici e passaggi obbligati grazie ai quali uomini e donne dell’universo mafioso stringono alleanze, rinnovano patti e/o pretendono deferenza e rispetto[4]. D’altro canto, la Chiesa, per la formazione nella e della fede dei suoi componenti, ha utilizzato (e forse continua ancora ad utilizzare) una catechesi che ha favorito la commistione tra sacro e ‘ndranghetistico: una catechesi tendente solo a trasmettere il corpo delle verità di fede, che formano la dottrina cristiana: il suo campo preferenziale di riferimento sono i bambini e i ragazzi; suo strumento privilegiato è il catechismo, che presenta la sintesi dei principi da imparare a memoria, ma non investe la vita e il comportamento dei credenti. Questo particolare modello di catechesi ha consentito alla cultura ‘ndranghetista di poter adattare a se stessa, facendone uno stravolgimento totale, i contenuti trasmessi dalla Chiesa, visto che la conoscenza della dottrina è sufficiente a fare di chi la conosce un buon cristiano: si può, dunque, essere buoni cristiani e mafiosi allo stesso tempo, perché l’essere credenti nulla ha a che fare con la testimonianza, nella propria vita, dei principi evangelici.
Questo è il meccanismo perverso da debellare: urge una nuova forma di catechesi, che, partendo dall’iniziazione cristiana dei fanciulli, fin dalla più tenere età, e coinvolgendo i loro genitori nella riscoperta di Cristo, loro Salvatore, porti alla crescita di nuovi uomini e donne, rinati nel Battesimo, che sappiano opporsi alla logica della morte propugnata dalla ‘Ndrangheta e siano in grado, con il loro impegno e la loro testimonianza di fede, di dare un contributo concreto per la costruzione di una società dove il rispetto della vita e della dignità di ogni uomo si imponga e dove l’amore e la carità evangelici vengano veramente vissuti, per impedire, così, alla mala pianta della ‘Ndrangheta di crescere e prosperare nella nostra terra.
[1] Cfr. Relazione della Direzione Investigativa Antimafia del dicembre 2013.
[2] Cfr. E. Ciconte, ‘Ndrangheta, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, Catanzaro 2008.
[3] Cfr. Relazione della Direzione Investigativa Antimafia del dicembre 2014.
[4] Cfr. A. Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Edizione Laterza, Bari 2008.
«Io conosco la deformazione che in seno alla mafia è stata data alla parola “uomo”: i mafiosi si ritengono uomini e, addirittura, “uomini d’onore”. Se c’è qualcuno che, invece, non è uomo è il mafioso e se c’è qualcuno che non ha onore è il mafioso: i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore; questo dobbiamo dirlo tranquillamente con tutta la comprensione e la pietà»[1]. Sono le parole di Mons. Italo Calabrò, Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Reggio Calabria-Bova, pronunciate il pomeriggio del 2 agosto 1984 a Lazzaro (RC), dove la sera del 27 luglio precedente era stato rapito, vicino al campo sportivo del paese, Vincenzo Diano, un bambino di neppure undici anni. Dal palco montato nella piazza principale, davanti ad un migliaio di persone radunate, don Italo parla a nome della Chiesa locale: «Siamo qui per stabilire un costume di non violenta ma ferma opposizione alla mafia in tutte le sue manifestazioni, non offrendo nessuna protezione – Dio non voglia certamente – nessuna complicità o approvazione […] Siamo qui per condannare il male e non lo facciamo in termini generici […] Siamo qui per condannare, questa sera, ogni male, ma in modo speciale la mafia, la nostra mafia o ‘Ndrangheta, che dir si voglia, della nostra Calabria e vogliamo, dinnanzi alla comunità nazionale ed alla comunità ecclesiale, dire che noi intendiamo isolare tutti coloro che hanno scelto la via dell’odio, la via della violenza, la via della rapina e non vogliamo e non possiamo confonderci con loro […]: quella gente è gente che oggi in mezzo a noi esprime il potere di Satana, il regno del male. Con quel regno del male e delle tenebre non vogliamo confonderci, vogliamo isolare questa parte infetta della nostra realtà calabrese»[2]. Sono espressioni di un uomo di Chiesa che per l’intera sua vita ha lottato per le strade, nelle piazze, nelle scuole per indirizzare i giovani verso il bene, spingendoli a guardare i bisogni degli ultimi, aggregandoli in nuove esperienze associative, spronandoli ad operare nel tessuto sociale della città di Reggio Calabria, dando loro, con il suo esempio, energia e speranza. In queste parole, profetiche ed anticipatrici di quelle dell’Episcopato Calabro, riportate nel documento Testimoniare la verità del Vangelo. Nota pastorale sulla ‘Ndrangheta del 2014, sono espresse alcune linee fondamentali da tenere ancora oggi contro questa associazione malavitosa:
[1] R. Arena – P. Bottero – F. Chirico – C. Riso – A. Russo, La ‘Ndrangheta davanti all’altare, Sabbia Rossa Ed., Reggio Calabria 2013, p. 158.
[2] Ibidem, p. 157.
La ‘Ndrangheta, da tempo, è l’organizzazione criminale più ricca che esiste in Italia, con sempre maggiori infiltrazioni negli Stati europei e nel resto del mondo. Quella stessa organizzazione che, fino ad alcuni decenni fa, era considerata un’accozzaglia di criminali, protetta da un’omertà senza tempo, minata da vecchie faide paesane e dedita prevalentemente al pizzo e ai sequestri di persona, è diventata una holding del crimine, che gestisce il traffico di cocaina nel mondo. Tutto ciò senza venir meno a quel modello di società tipico delle ‘ndrine, con regole e valori propri, come il silenzio imposto e il vincolo di sangue. La forza della ‘Ndrangheta sta nella sua natura, nella impenetrabilità della propria struttura e nella forza dei legami primari parentali. Pentirsi, ovvero parlare, significa tradire i propri congiunti e questo provoca problemi di ordine morale e psicologico, assai più presenti della paura di vendetta e di ritorsioni. Il valore assoluto su cui si basa, dunque, l’organizzazione è l’omertà[1]. Il requisito del non parlare con nessuno, del sopportare in silenzio un torto subito in vista di una risposta solidale dell’organizzazione è un tipico connotato della cultura ‘ndranghetista, è un cemento strutturale che unisce chi impone il silenzio e chi lo subisce. Esso è la non-parola: è il silenzio come categoria ordinatrice del pensare e dell’agire. Come non-parola, l’omertà non può far parte della cultura e della fede cristiana, che si basa, invece, sulla Parola di Verità, sul Verbo di Dio fatto carne.
Da qui la necessità, da parte della nostra Chiesa, di aiutare i fedeli a capire che con la ‘Ndrangheta ci si trova in una situazione diametralmente opposta a quella del Vangelo: la mentalità e i valori da essa veicolati, primo tra tutti l’omertà, sono totalmente da rigettare. Vincere la paura di restare soli e indifesi, accogliendo nell’abbraccio della comunità soprattutto chi è rimasto vittima di questo peso insostenibile, è l’aiuto che le Parrocchie possono fornire a chi cerca di uscire dalla logica di sopraffazione, imposta con la legge dell’omertà. Si deve costituire il terreno giusto perché la nostra Chiesa sia all’altezza del compito, terreno frutto di coscienze vive e preparate, illuminate dallo Spirito, ricche di senso civico e morale, acquisito attraverso il continuo cammino formativo nella fede.
[1] Cfr. N. Gratteri – A. Nicaso, Fratelli di sangue. Storia, boss e affari della ‘Ndrangheta, la mafia più potente del mondo, Mondadori Editore, Milano 2010, pp. 7-8.
La ‘Ndrangheta, in quanto sistema di potere, si sviluppa anche grazie ad una sua prassi pedagogica: essa, infatti, è stata capace nel corso del tempo di elaborare, verificare e mettere a punto nuove strategie educative. Le caratteristiche del codice culturale mafioso, che ispirano e compenetrano l’educazione ‘ndranghetista, sono le seguenti: autoritarismo, familismo amorale, maschilismo, rispetto assoluto dell’omertà, enfatizzazione dell’onore, svalutazione del valore del lavoro, prevalenza del linguaggio della violenza, parodia strumentale di credenze e riti cattolici, adozioni di ideali borghesi (assolutizzazione del profitto, arrivismo, individualismo concorrenziale, sfruttamento delle fasce deboli della società, diffidenza verso i meccanismi della partecipazione democratica). La pedagogia ‘ndranghetista, come ogni pratica pedagogica efficace, ha tre caratteristiche:
Quella impartita ai giovani è un’educazione totale, in cui «azioni, senso ed etica assumono le spiegazioni attribuite dai clan, da ritenere esaustive ed impermeabili ad interpretazioni diverse, derivanti dalla ragione o dalla religione o dal senso comune»[1]. Non c’è alcuna possibilità di emancipazione o di raggiungimento del proprio io, nessuna autocritica o ripensamento del modello ai quali si ispirano gli ‘ndranghetisti. Perché il modello per loro non è criminale: infatti, ciò che per noi sono leggi dello Stato per loro sono parole vuote, incomprensibili.
«È un’educazione performante quella che impartisce la ‘Ndrangheta, al punto che i suoi componenti intendono come “bene” ciò che per gli altri è inteso come “male”. Siamo di fronte ad un’educazione totale, perché totale è il controllo operato da parte di chi educa e totalizzanti sono i metodi ed i significati che trasmette a chi viene educato»[2]. Tutto questo a cominciare dalla culla: «Vardati ‘stu figghiu meu quant’esti bellu, comu somigghia a lu so papà, teni l’occhiuzzi i malandrineddu, cori i stu cori beddu da mammà; stammi a sentiri figghiuzzu caru, chi orfaneddu nescisti già, u patri toi ti l’ammazzaru, cu tradimentu e ‘nfamità; e fai la ninna e fai la nanna. E fai la ninna e fai la nanna. E tu t’ha fari randi, prestu hai a crisciri, sferri e cuteddi sempri hai maniari, l’onuri da famigghia hai manteniri, figghiuzzu a to patri l’hai vindicari; dammi perdunu i sti paroli, ma non mi pozzu rassegnari, cacciami st’odiu chi tegnu ‘nto cori, figghiu a to patri l’hai vendicari. E fai la ninna e fai la nanna. E fai la ninna e fai la nanna»[3]. È una madre che canta, la sera, nel suo abito nero da lutto, al figlio ancora innocente. Canta, piange e prepara la sua vendetta. Piange e chiede perdono per queste sue parole, ma non si può rassegnare. È il figlio che, una volta cresciuto, deve scacciare dal cuore della madre l’odio che sente in petto. E c’è un solo modo: uccidere chi ha ucciso suo padre. A questo sventurato progetto “dis/educativo” la nostra Chiesa deve rispondere con la semina dei buoni semi del Vangelo per far crescere alberi che, a suo tempo, daranno buoni frutti.
Occorre ripartire dalle famiglie, dove si formano le persone fin dalla più tenera età: è stando vicini ad esse e aiutandole concretamente che potremo porre un argine alla dilagante fioritura della criminalità organizzata. Alla logica dell’odio e della morte si deve opporre la scuola dell’amore e del perdono cristiano con la possibilità della riabilitazione per chi, essendo rimasto invischiato in quella logica e volendone uscire, chiede il perdono di Dio: «L’annuncio consapevole del Vangelo, mentre stigmatizza tutte le azioni ignominiose ed immorali, non esclude mai nessuno dalla possibilità di riabilitazione, mediante la riscoperta e la promozione del Sacramento della Penitenza-Riconciliazione, spesso sottovalutato da tanti fedeli»[4].
[1] G. Panizza, La ‘Ndrangheta come luogo di educazione totale, in Gli asini, Anno Scolastico 2010-2011, p. 58.
[2] Ibidem, p. 59.
[3] D. Siclari, La musica della mafia. Best of Uomini d’Onore, 2009.
[4] Conferenza Episcopale Calabra, No ad ogni forma di mafia!, Arti Poligrafiche Varamo, Polistena 2021, n. 7.
Nella nostra Diocesi risulta essere molto diffusa la Massoneria. La parola “massone” significa “muratore” e fa riferimento all’opera di costruzione che ogni associato intraprende. L’appartenenza alla Massoneria è stata costantemente condannata dalla Chiesa sin dalla sua nascita (la Massoneria moderna è nata nel 1717 in Inghilterra). Si contano ben 586 documenti del Magistero nei quali la Chiesa ha esortato i fedeli a tenersi lontano da questa associazione segreta. La prima condanna in ordine di tempo risale al 1738, quando Papa Clemente XII promulgò la Bolla Pontificia “In eminenti apostolatus specula”, nella quale, fra le altre cose, veniva condannato il carattere segreto della Massoneria: «Se essi non facessero nulla di male, non odierebbero tanto la luce»[1]. Nella stessa Bolla, inoltre, si metteva in evidenza come gli aderenti a tale associazione erano «uomini di tutte le religioni e sette, paghi di una parvenza presunta di una certa qual rettitudine morale»[2].
È proprio nell’universo extra cattolico che attecchisce la Massoneria; infatti, le prime costituzioni dei “liberi muratori” (massoni) furono redatte dal pastore presbiteriano James Anderson. Questo mondo protestante ha una miriade di Chiese (all’inizio anche in lotta tra di loro), sorte in base al principio luterano della libera interpretazione delle Scritture. Esso, dunque, nasce come mondo plurale e questo è determinante per capire il fenomeno massonico, fondato sul relativismo.
La Massoneria può essere considerata una nuova edizione della più antica eresia della storia del cristianesimo: lo gnosticismo. Tale eresia mina alle basi l’insegnamento della Chiesa: mentre in essa la salvezza è donata dalla Rivelazione di Dio in Cristo Gesù, suo Figlio, nello gnosticismo e nella Massoneria la salvezza è una pura costruzione dello sforzo umano attraverso la conoscenza; mentre la Chiesa è una comunità aperta a tutti gli esseri umani che abbracciano la fede in Cristo e si fanno battezzare, lo gnosticismo e la Massoneria sono delle sette di iniziati: solo coloro che ad esse appartengono sono illuminati, mentre tutti gli altri uomini rimangono immersi nelle tenebre.
Pertanto, la visione massonica e l’appartenenza a questa associazione sono oggettivamente incompatibili con l’insegnamento e l’appartenenza alla Chiesa. Dal punto di vista teologico i massoni si dichiarano credenti, ma il Grande Architetto dei massoni non è il Dio della Rivelazione cristiana, che si fa conoscere all’uomo e chiede l’obbedienza della fede, ma è piuttosto l’Ente supremo frutto dell’immaginazione personale, secondo l’impostazione tipica del teismo illuminista.
Dal punto di vista morale, le logge massoniche propugnano principi slegati dalla fede e pienamente autonomi: la morale massonica è tutta incentrata sullo sforzo individuale e non ha paradigmi oggettivi, derivanti dalla fede. Un documento del 1984 della Sacra Congregazione della Dottrina della Fede, guidata dall’allora Cardinale Ratzinger, afferma: «Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione ad esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione»[3].
Qual è, dunque, l’atteggiamento che la nostra Chiesa deve oggi avere nei confronti dei suoi membri iscritti alle logge massoniche? La risposta non può che venire dall’atteggiamento di Cristo, che è allo stesso tempo Maestro e Pastore: come Maestro ci insegna a chiamare Bene il Bene e Male il Male (la verità prima di ogni cosa) e, quindi, affermare con chiarezza agli interessati l’errore in cui sono caduti; come Pastore ci insegna a cercare le pecorelle smarrite, a prenderle sulle nostre spalle e a riportarle all’ovile sicuro della salvezza. Nella condanna alla Massoneria non si deve vedere una sorta di ostinazione contro di essa, ma un amore alla Verità, che è Cristo, e agli uomini, che solo incontrando Lui si salvano. «La Chiesa è intransigente sui principi, perché crede, è tollerante nella pratica, perché ama. I nemici della Chiesa sono, invece, tolleranti sui principi, perché non credono, ma intransigenti nella pratica, perché non amano. La Chiesa assolve i peccatori pentiti, i nemici della Chiesa assolvono i peccati»[4].
[1] Clemente XII, Bolla Pontificia In eminenti apostolatus specula, 28 aprile 1738.
[2] Ibidem.
[3] Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione circa l’appartenenza dei cattolici ad associazioni massoniche, in AAS LXXVI (1984), p. 300.
[4] R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923, p. 725.
«Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (At 2, 42-47).
Le nostre comunità cristiane dovrebbero essere all’altezza di questo ideale: è importante guardare alle origini e recuperare la centralità dell’amore, per poi rifletterla come luce splendida nella quotidianità della vita. In quanto seguaci di Cristo tutti siamo chiamati a vivere l’amore vero, a imitazione del Maestro e in comunione gli uni con gli altri, capaci di perdonarci vicendevolmente e di superare divisioni e giochi di potere che minano la fraternità e sviliscono il significato del “camminare insieme”. Per poterlo fare è necessario poggiare la nostra vita sulla solida base della Parola di Cristo e utilizzare lo strumento della preghiera, invocando lo Spirito Santo affinché ci permetta di capire quanto, senza la sua presenza in noi, siamo cembali che tintinnano o vuoti vasi di creta destinati a frantumarsi. È necessario, per questo, sentirsi coinvolti, superando ogni forma di individualismo e soprattutto di gelosia o interessi e arrivismo personali.
Un modo di crescere nella fede e diventare sempre di più comunità è quello di favorire gli incontri nelle nostre assemblee e facilitare le conoscenze tra i singoli membri, le famiglie e le realtà presenti nel territorio della Parrocchia. Il Parroco, unitamente agli operatori pastorali, deve conoscere il territorio e favorire l’incontro semplice e fraterno nei momenti liturgici e/o anche di semplice devozione.
«All’interno del popolo di Dio e nelle diverse comunità quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani!»[1]. «Ai cristiani di tutte le comunità del mondo desidero chiedere specialmente una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa»[2].«A coloro che sono feriti da antiche divisioni risulta difficile accettare che li esortiamo al perdono ed alla riconciliazione, perché pensano che ignoriamo il loro dolore o pretendiamo di far perdere loro memoria o ideali. Ma se vedono la testimonianza di comunità autenticamente fraterne e riconciliate, questa è sempre una luce che attrae. Perciò mi fa tanto male riscontrare come in alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio, divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi atteggiamenti?»[3]. All’interno delle nostre comunità è necessario superare il clima di incomprensione e, a volte, anche di contrapposizione tra i diversi gruppi ecclesiali. «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra di voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato, infatti, a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”» (1Cor 1,10-12).
La drammatica esperienza della pandemia, causata dal Covid-19, ci deve lasciare come insegnamento che nessuno si può salvare da solo. Per noi ciò significa rimettere al centro della nostra vita il valore inestimabile dell’unità ecclesiale, pur nella diversità dei carismi ricevuti. L’unità, ricchezza nella diversità, viene prima di ogni altra appartenenza a gruppi, associazioni, movimenti, singole Parrocchie, comunità religiose: «Nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,21-22).
[1] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 98.
[2] Ibidem, n. 99.
[3] Ibidem, n. 100.
Per poter vivere l’amore vero è necessario riprendere la pratica della correzione fraterna: essa è l’azione che può sanare le ferite della nostra Chiesa. Gesù stesso ci ha insegnato a correggere con amore e nella verità il fratello che sbaglia: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, và ed ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano ed il pubblicano» (Mt 18,15-17). Chi corregge deve imitare Gesù, che perdona e non disprezza; deve farlo con animo sereno, porgendo la mano, affinché l’altro si ravveda e, rialzandosi, riprenda il suo cammino con fiducia e speranza. «Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu. Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,1-2).
Così Papa Francesco si sofferma su questo brano: «In effetti, quando siamo tentati di giudicare male gli altri, come spesso avviene, dobbiamo anzitutto riflettere sulla nostra fragilità. Quanto facile è criticare gli altri! […] Ma tu guarda te stesso! È bene domandarci che cosa ci spinge a correggere un fratello o una sorella, e se non siamo in qualche modo corresponsabili del suo sbaglio. Lo Spirito Santo, oltre a farci dono della mitezza, ci invita alla solidarietà, a portare i pesi degli altri […] Ci possono aiutare anche le parole di Sant’Agostino quando commenta questo stesso brano: “Perciò, fratelli. Qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, […] correggetelo in questa maniera, con mitezza. E se tu alzi la voce, ama interiormente. Sia che incoraggi, che ti mostri paterno, che rimproveri, che sia severo, ama” (Sant’Agostino, Discorsi, 163/B3). Ama sempre. La regola suprema della correzione fraterna è l’amore: volere il bene dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Si tratta di tollerare i problemi degli altri, i difetti degli altri in silenzio nella preghiera, per poi trovare la strada giusta per aiutarli a correggersi. E questo non è facile […]. Mitezza, pazienza, preghiera, vicinanza. Camminiamo con gioia e con pazienza su questa strada, lasciandoci guidare dallo Spirito Santo»[1].
[1] Francesco, Udienza Generale, mercoledì 3 novembre 2021.
Quando si parla di credibilità della nostra Chiesa si guarda, in realtà, alla credibilità degli uomini e delle donne che la compongono: è proprio il loro comportamento che rende la comunità diocesana più o meno credibile. San Paolo VI scriveva: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni […]. È, dunque, mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità»[1].
La nostra Chiesa deve riscoprire e vivere fino in fondo la sua chiamata alla santità: ogni suo componente deve fare del suo meglio per camminare sulla via di Gesù Cristo. Ora, poiché è l’agire degli uomini di Chiesa che li rende poco credibili, si impone un costante esame di vigilanza morale ed una continua invocazione dell’aiuto divino: siamo convinti che la credibilità della nostra Chiesa potrà essere realizzata solo con l’ausilio della Grazia che viene dall’Alto. Ecco perché la conversione, necessaria per ognuno, deve iniziare in ginocchio davanti a Cristo Signore. La comunità diocesana è invitata ad annunciare il Regno di Dio e il Vangelo usando tutte le buone vie del tempo in cui vive, ma senza mai rinunciare alla missione ricevuta dal suo Signore e senza mai tradirne l’essenza, attraverso la testimonianza viva dei suoi singoli membri: testimonianza di unità e di amore, che non siano, però, solo vuote parole, bensì sentimenti veri, capaci di rendere i cattolici della nostra terra persone realmente buone, persone sagge, persone libere, persone serene e forti.
[1] Paolo VI, Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, n. 41.
Nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente, la Chiesa è invitata «a farsi carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo Spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo»[1].
La nostra comunità cristiana deve essere capace di affrontare gli scandali interni ed esterni, chiamandoli per nome e proclamando la verità delle cose, nella consapevolezza che, nella misura in cui vengono identificati, è necessario estirparli al più presto, come i tumori: ne va della sua credibilità e della sua vita. La nuova evangelizzazione della nostra terra darà risultati solo se saremo veramente credibili, se, cioè, faremo coincidere la predicazione dei valori cristiani del Vangelo con il metterli in pratica nella e con la nostra vita. Per questo dovremo dimostrare di essere uomini e donne liberi da qualsiasi condizionamento e compromesso interno ed esterno, che possa costituire scandalo: mancanza di comunione, uso cattivo del denaro, sfruttamento dei poveri, lavoro nero, clericalismo, forme eccessive di lusso, atteggiamento elitario, mancanza di accoglienza, scandali sessuali, connivenza con la ‘ndrangheta, sete di potere.
«Solo una Chiesa libera è una Chiesa credibile. Siamo chiamati ad essere liberi dal senso della sconfitta dinnanzi alla nostra pesca talvolta fallimentare; ad essere liberi dalla paura che ci immobilizza e ci rende timorosi. Siamo chiamati ad essere liberi dalle ipocrisie dell’esteriorità; ad essere liberi dalla tentazione di imporci con la forza del mondo anziché con la debolezza che fa spazio a Dio; liberi da un’osservanza religiosa che ci rende rigidi ed inflessibili; liberi da legami ambigui col potere e dalla paura di essere incompresi ed attaccati»[2].
[1] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente, n. 33.
[2] Francesco, Omelia per la Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 2021.
«Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,1-6). «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1Cor 12,4-7). «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati ad un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra […]. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (1Cor 12,12-14.27).
Si rende quanto mai urgente uno spirito di collaborazione all’interno della nostra realtà ecclesiale, condividendo risorse ed impegni individuali nello spirito di fraternità e di carità, che devono essere basilari per la costruzione di una sola realtà: la Chiesa diocesana. Siamo più che mai convinti che potremo essere all’altezza della nostra vocazione e missione solo se collaboreremo insieme, uniti al Signore e tra di noi. A questa collaborazione dobbiamo tutti educarci, consapevoli che il “noi” vale più dell’“io”: così potremo essere sanati dall’egoismo, dall’individualismo, dal campanilismo e dall’autoreferenzialità, da cui provengono molti mali nella Chiesa del nostro tempo e della nostra terra. È necessario, dunque:
A fondamento del concetto di corresponsabilità sta il principio della Chiesa come mistero di comunione. Soltanto se ci si sente parte viva di questa comunione e si alimenta sempre più il senso di appartenenza a questa famiglia, si può assumere con gioia e con il cuore una propria responsabilità al suo interno e partecipare così di fatto alla sua vita ed alla sua missione. La corresponsabilità, che conduce alla partecipazione diretta, trova nell’esperienza di comunione, che è la Chiesa, la ragione profonda che la sostiene e la motivazione forte che la alimenta giorno dopo giorno, con energia sempre fresca. Una corresponsabilità da vivere in termini di solidarietà non soltanto affettiva, ma effettiva, partecipando secondo la condizione ed i compiti propri di ciascuno all’edificazione storica e concreta della comunità ecclesiale ed assumendo con convinzione e gioia le fatiche e gli oneri che essa comporta[1].
Nella Chiesa-comunione nessuno può dire: “Questo non mi riguarda”. Nessuno può chiamarsi fuori dalla vita dell’unica famiglia, nessuno deve sentirsi ai margini, nessuno deve recitare solo una parte da comparsa, nessuno può fare solo da spettatore. Tutti siamo protagonisti attivi di un mistero d’amore che scaturisce dalla comunione stessa che è Dio e si fa presente nella storia dell’uomo proprio attraverso le nostre persone concrete, chiamate con la loro responsabilità diretta a realizzare e testimoniare un modo sempre nuovo e bello di vivere la fede: la comunione fraterna che è la Chiesa. In questa luce, allora, il “questo non mi riguarda” si traduce immediatamente nel “questo mi sta a cuore”, ad indicare appunto la necessaria partecipazione attiva alla vita ed alla missione della Chiesa, portando ciascuno se stesso come dono per tutti. La corresponsabilità deve diventare lo stile attraverso il quale i fedeli (laici, persone consacrate, diaconi, sacerdoti) si sentano membri delle proprie comunità e per questo contribuiscono attivamente a fare la loro parte per edificarle.
La corresponsabilità ecclesiale rintraccia un luogo particolarmente significativo di attuazione e di esercizio concreto negli organismi di partecipazione comunionale, segnatamente il Consiglio Pastorale ed il Consiglio per gli Affari Economici. Questi due strumenti devono uscire da una dimensione puramente formale o burocratica, per diventare sempre più elementi vivi della comunità, tesi ad un costante impegno per la missione evangelizzatrice. Per realizzare questa finalità non basta la semplice buona volontà espressa: diventano necessarie riflessioni adeguate, scelte coerenti e verifiche appropriate; ma alla base di tutto è necessario assumere il senso di corresponsabilità personale, a cui i singoli fedeli devono essere approfonditamente formati.
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Lettera Sostenere la Chiesa per servire tutti, n. 11.
La Costituzione conciliare Gaudium et Spes ci parla di una Chiesa solidale con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono»[1]. La Chiesa è formata da uomini e da donne che hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti e per questo «la comunità dei cristiani si sente realmente ed intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia»[2]. Non viviamo più immersi in un cristianesimo sociologico in cui l’essere cristiano e l’essere cittadino coincidevano; in cui la Parrocchia era la “fontana del villaggio”, il centro delle nostre cittadine; il tempo in cui si nasceva e si moriva in un ambiente naturalmente cristiano, che, in quanto tale, trasmetteva linguaggi e visioni unitari dell’esistenza. Se riflettiamo attentamente, di tutto questo rimane ben poco nella nostra realtà. Paradossalmente resta, comunque, in molti la nostalgia di un passato ideologizzato, rispetto al quale il confronto con il presente rischia di essere motivo di amarezza, di chiusura, di un cammino con lo sguardo rivolto al passato. C’è un’immagine biblica che esprime bene il modo in cui buona parte delle nostre comunità sta camminando ancora: la moglie di Lot, che non ha avuto la forza di guardare avanti, ma procedeva con lo sguardo rivolto all’indietro. Risultato? Divenne una statua di sale (cfr. Gen 19,17-26).
Una Chiesa arroccata in se stessa, con il solo desiderio di auto-preservarsi e di creare barricate in difesa delle sue posizioni, non è una Chiesa in cammino o, per dirla come Papa Francesco, “una Chiesa in uscita”[3]. Umanamente parlando, quando si presentano nuove sfide, difficili addirittura da comprendere, la reazione istintiva è chiudersi, difendersi, alzare muri, stabilire confini invalicabili. Noi cristiani, però, abbiamo il dovere di sottrarci a questa tentazione e riusciremo a farlo nella misura in cui diventeremo davvero consapevoli che lo Spirito di Dio è attivo ed opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma nel mondo, proprio dentro i cambiamenti e le sfide che ci vengono proposti.
In questa prospettiva, Papa Francesco, durante il suo intervento al Convegno della Chiesa italiana di Firenze, rivolse questo invito: «La Chiesa italiana si lasci portare dal soffio potente e per questo, a volte, inquietante dello Spirito. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e dalle tempeste. Sia una Chiesa libera ed aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa»[1].
Non basta più assumere l’atteggiamento delle sentinelle che, rimanendo dentro la fortezza, osservano dall’alto e giudicano ciò che accade intorno. Oggi bisogna coltivare l’attitudine degli esploratori che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di sporcarsi le mani e di ferirsi. Come discepoli del Signore dobbiamo essere convinti che non si esce soltanto per dare un’occhiata curiosa senza coinvolgimento e neppure si esce per riportare tutti dentro tramite strategie di proselitismo. Piuttosto, si esce per rimanere “fuori” o, meglio, per rimanere in “diaspora” perché l’ambiente vitale della Chiesa è il “fuori”. Abitare le periferie esistenziali e sociali, dove si trovano gli uomini e le donne in carne ed ossa, così come sono: questo è il nostro compito per il futuro.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 1.
[2] Ibidem, n. 1.
[3] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 20-24.
[4] Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015.
La fedeltà al Vangelo e la fedeltà all’uomo ed alla sua storia nella nostra epoca e nel nostro territorio chiedono alle Parrocchie di riorganizzarsi: le strutture comunicative, i processi di iniziazione alla fede, il linguaggio dell’annuncio vanno ripensati. C’è una profonda distanza tra la proposta cristiana, con i suoi principi ed i suoi insegnamenti, ed i valori, gli stili di vita ed i costumi, che oggi riscontriamo nel tessuto ordinario della nostra società. Di fatto, non si tratta di fare qualche aggiustamento, ma di affrontare la questione di base che riguarda la credibilità e l’attualità del Vangelo per le generazioni che vivono il nostro tempo, supportate dalla testimonianza delle nostre comunità, perché, come quella della Chiesa delle origini, confermino l’annuncio del messaggio di Cristo con la vita vissuta, in modo tale da poter trasformare ambienti di vita e di lavoro. Tutto ciò comporta il ripensare il modo di agire in Parrocchia e tra le Parrocchie con alcune scelte indispensabili. È necessario dunque:
Per evangelizzare il nostro territorio e le persone che vi abitano occorre, innanzitutto, rendersi conto del volto nuovo e di non facile lettura che esso presenta. Molti, infatti, non lo conoscono nella sua realtà più profonda; diversi non lo ritengono in grado di offrire qualcosa di valido, cadendo nella trappola dei luoghi comuni. È, perciò, necessario ascoltarlo con amore ed attenzione per scoprirne le ferite profonde, le non poche ricchezze e le opportunità che esso presenta per l’annuncio del Vangelo. È, inoltre, basilare stare attivamente nel territorio sentendosi responsabili della storia comune insieme agli altri con i quali collaborare lealmente perché, data la complessità delle questioni, nessuno può pensare di risolvere i problemi della nostra terra limitandosi esclusivamente a svolgere il proprio compito, agendo in solitudine o prendendo decisioni sganciate dal contesto generale.
Oggi più che mai è necessario che le singole Parrocchie vivano intensamente l’appartenenza alla Diocesi con la condivisione convinta della pastorale diocesana. Camminare in questa direzione comporta la scelta di una effettiva pastorale d’insieme, progettata secondo uno stile veramente comunionale di Chiesa ed attuata da pastori e laici, ciascuno con il proprio compito specifico. Questa ha la sua fonte nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, ma il canale che mette in relazione comunione e pastorale d’insieme è la domanda che viene dal territorio, dove l’uomo ama, lavora, riposa, educa, si diverte, studia, soffre, vive condizioni di povertà o di marginalità, elabora progetti per il bene comune, si prende cura dell’altro con il volontariato, si fa attento agli incontri con le altre culture. Questo insieme di luoghi, che pullulano di vita, domandano un superamento delle divisioni territoriali in senso puramente geografico e l’elaborazione di un progetto pastorale che preveda di rispondere all’unisono a quello che lo Spirito del Signore chiede qui ed ora. Più le nostre Parrocchie saranno capaci di lavorare insieme, più si presenteranno sul territorio come comunità che sanno appassionare le persone, accompagnando nella fede, curando le ferite della gente, suscitando vocazioni, favorendo la coscienza sociale e diffondendo il Vangelo della pace.
Nell’attenzione al territorio rientra la cura del creato, che ha come suo punto di partenza il brano biblico della Genesi: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen 1,27-28). «“Laudato sì, mi’ Signore”, cantava San Francesco di Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella, che ci accoglie tra le sue braccia […] Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che “geme e soffre le doglie del parto” (Rom 8,22)»[1].
La terra è stata affidata da Dio all’uomo per custodirla attraverso il lavoro e non per distruggerla. Lo stesso Papa Francesco, in un’omelia tenuta a Santa Marta, pone in evidenza la responsabilità dell’uomo sul creato in questi termini: «Il secondo dono di Dio nella creazione è un compito: ci ha dato tutta la terra da dominare e soggiogare, come recita la Genesi. È, dunque, una regalità quella donata all’uomo, perché Dio non lo vuole schiavo, bensì signore, re, ma con un compito: come Lui ha lavorato nella creazione, così ha dato a noi il lavoro di portare avanti il creato. Non di distruggerlo; ma di farlo crescere, di curarlo, di custodirlo e di portarlo avanti»[2].
Alla luce di queste indicazioni è necessario che la Chiesa locale ponga un’attenzione particolare al problema dell’inquinamento della nostra terra con la precipua finalità di educare le nuove generazioni a custodirla, a partire dai piccoli gesti quotidiani. È necessario, inoltre, difendere, apprezzare e far conoscere il nostro territorio, favorendo la riscoperta di un’ecologia integrale, al fine di poter abitare il meraviglioso patrimonio naturalistico che il Signore ci ha donato e che siamo tenuti a proteggere come perla preziosa. In tal senso, venga maggiormente valorizzata l’annuale celebrazione della Giornata per la custodia del creato.
«La Calabria è una terra bella ed amara, ed è mia. Non la amo solamente, le appartengo; come un figlio appartiene al ventre della madre, che quel ventre non ha potuto scegliere ma non saprà mai rinnegare. Mi è madre e come tale la conosco: il volto consunto mi basta guardarlo, ritrovarlo e possederlo, non interrogarlo per sapere cosa celano gli angoli nascosti nella notte delle lacrime. Non conosco tutti i suoi segreti, le sue rocce, i suoi sommessi e umili pregi, che ella non vanta, ma nasconde; eppure in me la comprendo e la assolvo, e più di tutto le assomiglio perché sono sua figlia. La Calabria è partire e morire partendo; non ritrovare quel profumo in altri posti; altri i luoghi dove il viaggio è finito a fare storia di lontananza e di nostalgia. È il mio bagaglio pesante che non potrei mai abbandonare, perché in lei vivono quelli che amo ed in loro sempre vivrà la più intima parte mia, che ancora piange e cerca il seno della madre»[3].
[1] Francesco, Lettera Enciclica Laudato Si’, n. 1-2.
[2] Francesco, Omelia tenuta a Santa Marta il 7 febbraio 2017.
[3] Anne Marie De Caprio, emigrante della Piana di Gioia Tauro in Francia.
Il primo ad introdurre l’espressione “segni dei tempi” nel linguaggio cattolico fu Papa Giovanni XXIII, nella Costituzione Apostolica “Humanae Salutis” del 1961: «Sappiamo che la visione di questi mali deprime talmente gli animi di alcuni al punto che non scorgono altro che tenebre, dalle quali pensano che il mondo sia interamente avvolto. Noi, invece, amiamo riaffermare la nostra incrollabile fiducia nel divin Salvatore del genere umano, che non ha affatto abbandonato i mortali da Lui redenti. Anzi, seguendo gli ammonimenti di Cristo Signore che ci esorta ad interpretare i “segni dei tempi” (Mt 16,3), fra tanta tenebrosa caligine scorgiamo indizi non pochi che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità»[1].
È attraverso i segni dei tempi che, nel nostro pellegrinaggio storico, Dio ci comunica la sua sollecitudine redentrice in un contesto dove sembrerebbero regnare disordine e confusione. Occorre, quindi, riconoscerli ed interpretarli per arrivare alla provvidenza amorosa di Dio, che ci viene comunicata in questo modo. Quali sono i segni dei tempi? Nella prospettiva cristiana esistono tre grandi categorie di segni dei tempi:
b) il corso della storia in quanto tale, che manifesta la continua vicinanza di Dio;
Mentre il creato in quanto tale, come pure i tempi di pace e di armonia, potrebbero più facilmente mostrare la Provvidenza di Dio, di solito i tempi difficili richiedono un’interiorizzazione di carattere personale e comunitario, che porta al pentimento ed alla conversione della condotta.
La nostra Chiesa locale sia vigile e pronta ad intercettare quegli avvenimenti storici sufficientemente densi, universali e ripetuti, colti dalla coscienza degli uomini e delle donne della nostra terra, per individuare la direzione verso cui si orienta consapevolmente la società e leggerli alla luce del Vangelo. Solo in tal modo la comunità diocesana rimane in sintonia con le necessità e le aspirazioni del territorio per non correre il rischio di finire ai margini del suo vissuto senza nulla da dire e senza indicazioni di fede da proporre.
[1] Giovanni XXIII, Costituzione Apostolica Humanae Salutis, n. 4.
In tutte le realtà umane i cristiani sono invitati a riconoscere segni di realtà divine, che identificano il disegno di Dio per l’intera umanità, dalle sue origini fino alla sua fine, passando per il presente. Essi, per essere veramente credenti ed uniti per formare una Chiesa che vive nella società, devono saper leggere evangelicamente gli avvenimenti caratterizzati da un dato orientamento e che, nella sostanza più profonda, sono rivelatori di un progresso storico, mondiale ed ecclesiale. Ora, poiché gli avvenimenti possono essere oggetto di interpretazioni differenti e poiché essi, in quanto elementi umani, sono ambigui, solo la fede può decifrare nei segni dei tempi i disegni di Dio. Per riconoscerli occorre credere che è il medesimo e unico Spirito di Dio che opera nell’universo, nella storia e nel cuore degli uomini. In questo caso, è la Chiesa, come soggetto collettivo, che discerne veramente i segni. Il Concilio Vaticano II lo afferma dicendo: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio»[1]. Lo stesso Concilio indica alcuni di questi segni:
La nostra Chiesa diocesana potrebbe aggiungere a questi alcuni segni del nostro tempo e della realtà in cui viviamo:
Il nostro “sinodare” ci consente di valutare insieme e di rispondere alle provocazioni di questi segni, diventando così, a nostra volta, strumento per il cambiamento ed il miglioramento della nostra realtà.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 11.
[2] Cfr. ibidem, n. 4.
Le conquiste della scienza ed i progressi della medicina hanno contribuito in maniera decisiva negli ultimi decenni ad allungare, anche nella nostra terra, la durata media della vita. Accanto a ciò va considerato un altro fenomeno: il drammatico calo della natività. Il tutto unito all’emorragia di giovani che, non avendo sbocchi lavorativi per il futuro, lasciano la nostra regione in maniera definitiva, mette davanti ai nostri occhi questa realtà: è in costante crescita il numero degli anziani e in costante calo quello dei giovani. Tale sorta di “rivoluzione silenziosa” pone problemi di ordine sociale, economico, culturale, psicologico e spirituale. È uno dei segni dei tempi ai quali la Chiesa che è in Oppido Mamertina-Palmi deve porre molta attenzione. Richiamando al rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona anziana e nella convinzione che gli anziani abbiano ancora molto da dire e possano dare molto alla vita della società e della nostra Chiesa, auspichiamo che nei piani pastorali per il futuro la questione venga affrontata con vivo senso di responsabilità da parte di tutti: singoli credenti, famiglie, associazioni e gruppi secondo le competenze di ciascuno.
Lungi dal considerare la questione solo come un puro problema di assistenza o di beneficenza, bisogna ribadire l’importanza primaria per la vita delle nostre comunità della valorizzazione delle persone di ogni età, richiamando tutti a far sì che la ricchezza umana e spirituale, le riserve di esperienza e di consiglio accumulate nel corso di intere vite non vadano disperse. A conferma di ciò San Giovanni Paolo II, rivolgendosi a circa ottomila anziani ricevuti in udienza il 23 marzo 1984, disse: «Non vi lasciate sorprendere dalla tentazione della solitudine interiore. Nonostante la complessità dei vostri problemi […], le forze che progressivamente si affievoliscono […], voi non siete né dovete sentirvi ai margini della vita della Chiesa, elementi passivi di un mondo in eccesso di movimento, ma soggetti attivi di un periodo umanamente e spiritualmente fecondo dell’esistenza umana. Avete ancora una missione da compiere, un contributo da dare»[1].
La situazione attuale interpella, dunque, la nostra Chiesa in vista di una revisione della pastorale per gli anziani. La ricerca di forme e metodi nuovi, più corrispondenti ai loro bisogni ed alle loro aspettative spirituali, e l’elaborazione di percorsi ecclesiali radicati nel terreno della difesa della vita, del suo significato e del suo destino contro ogni tentazione di abbandono, sono una condizione imprescindibile per spronare gli anziani ad apportare il loro contributo alla missione della Chiesa e per aiutarli a trarre beneficio spirituale dalla loro attiva partecipazione alla vita delle comunità parrocchiali.
Nel suo messaggio all’Assemblea mondiale sui problemi dell’invecchiamento della popolazione San Giovanni Paolo II affermava: «La vita è un dono di Dio agli uomini creati per amore a sua immagine e somiglianza. Questa comprensione della sacra dignità della persona umana porta a dare valore a tutte le tappe della vita. È una questione di coerenza e di giustizia. È infatti impossibile dar valore veramente alla vita di un anziano se non si dà valore veramente alla vita di un bambino sin dal momento del suo concepimento. Nessuno sa fin dove si potrebbe arrivare se la vita non fosse più rispettata come un bene inalienabile e sacro»[2].
[1] Giovanni Paolo II, Insegnamenti VII, 1 (1984), p. 744.
[2] Giovanni Paolo II, Insegnamenti V, 3 (1982), p. 125.
Papa Francesco, parlando ai membri dell’Associazione Nazionale Lavoratori Anziani, affermava: «In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un’espansione dell’impegno degli anziani nel volontariato e nell’associazionismo […]. La sfida maggiore che, per i prossimi anni, si presenterà alla società è promuovere con efficacia sempre maggiore le risorse umane di cui sono portatori gli anziani all’interno della comunità […]. Si tratta di attivare, sul territorio, reti di solidarietà che abbiano come riferimento gli anziani in quanto soggetti attivi protagonisti e non solo oggetto di intervento di tipo assistenziale. Sarà, dunque, importante che gli anziani vengano considerati non solo portatori di bisogni, ma anche di nuove istanze, o come mi capita spesso di dire, riecheggiando la Bibbia, di “sogni”; sogni, però, carichi di memoria, non vuoti, vani, come quelli di una certa pubblicità; i sogni degli anziani sono impregnati di memoria e, quindi, fondamentali per il cammino dei giovani, perché sono le radici. Dagli anziani viene quella linfa che fa crescere l’albero, fa fiorire, dà nuovi frutti»[1].
Compito della nostra Chiesa è mostrare concretamente agli anziani che la loro vita ha un senso. Tante volte essi si sentono inutili, disprezzano la loro stessa vita. Invece, l’anziano può essere, a suo modo, utile, bello, determinante, con i carismi propri della vecchiaia quali:
Le nostre comunità ecclesiali saranno migliori se sapranno beneficiare dei carismi della vecchiaia per la costruzione del loro futuro.
[1] Francesco, Udienza del 16 dicembre 2019.
La Chiesa è di fatto il luogo dove le diverse generazioni sono chiamate a condividere il progetto d’amore di Dio in un reciproco scambio di doni, di cui ciascuno è portatore per virtù dello Spirito Santo. La terza età porta con sé un’apertura particolare alla trascendenza; a confermarlo sono, tra l’altro, l’assidua e nutrita partecipazione alle assemblee liturgiche; le svolte inaspettate di molti anziani che si riavvicinano alla Chiesa dopo lunghi anni di lontananza; lo spazio importante riservato, nella loro vita, alla preghiera.
Un pericolo è da evitare da parte delle nostre comunità: il fatalismo, di cui spesso è connotata la religiosità delle persone anziane. In questo caso, la sofferenza, le limitazioni, le malattie, le perdite legate a questa fase della vita sono viste come punizioni di Dio. La comunità ecclesiale ha la responsabilità di intervenire per far evolvere la religiosità degli anziani, restituendo un orizzonte di speranza alla loro fede. Lo può fare tramite una catechesi appropriata, in cui l’immagine di “Dio-timore” venga soppiantata da quella del “Dio-Amore”. Servendosi delle Sacre Scritture, degli insegnamenti del Magistero della Chiesa, della meditazione sulla morte e risurrezione di Cristo, si aiuteranno gli anziani a superare una visione retributiva nel rapporto con Dio, che nulla ha a che vedere con il suo amore di Padre. Partecipando alla liturgia e ai sacramenti della comunità cristiana e condividendone il vissuto, essi comprenderanno sempre più che il Signore non è impassibile dinnanzi al dolore dell’uomo né dinnanzi alla loro personale fatica di vivere.
È dovere della nostra Chiesa annunciare agli anziani la buona notizia di Gesù che si rivela loro come si rivelò a Simeone ed Anna, li conforta con la sua presenza, li fa gioire interiormente per l’adempimento di promesse ed attese che essi hanno saputo mantenere vive nel cuore. Inoltre, bisogna far prendere ad essi viva coscienza del compito che hanno di trasmettere al mondo, con i modi loro propri, il Vangelo di Cristo, rivelando a tutti il mistero della sua perenne presenza nella storia.
La pastorale di rievangelizzazione della terza età deve mirare alla crescita della sua spiritualità specifica, cioè la spiritualità di quella rinascita continua che Gesù stesso indica all’anziano Nicodemo, invitandolo a non lasciarsi fermare dalla sua vecchiaia, ma ad aprirsi al dono dello Spirito, per rinascere ad una vita sempre nuova, carica di speranza, perché: «quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito» (Gv 3,6).
La nostra “Chiesa in uscita” avrà sempre più bisogno di persone anziane, convertite alla passione per il futuro, all’amore per le giovani generazioni, testimoni di fede, artefici di una fraternità che crea legami ed apre alla bellezza di vivere e camminare insieme.
Compito della nostra comunità cristiana è incontrare gli uomini in carne ed ossa con la preferenza per gli ultimi, gli ammalati, i disperati, i dimenticati, “coloro che non hanno da ricambiarci” (cfr. Lc 14,14), quelli che Gesù ha privilegiato, proclamandoli beati e primi destinatari del Regno. La Chiesa in rapporto agli ammalati, mutuandoli dall’atteggiamento di Gesù nel Vangelo, ha due gesti fondamentali da imitare: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36), ovvero la consapevolezza di essere misurati sull’amore, e l’icona del Buon Samaritano (cfr. Lc 10,25-37), cioè la prossimità che sa prendersi cura.
Nelle nostre Parrocchie dobbiamo formare tutti i battezzati a farsi prossimi, ad andare a visitare gli ammalati, non solo come forma di buona educazione, né come possibilità di tacitare la propria coscienza e, quindi, per sentirsi un po’ più buoni, ma come profonda partecipazione al mistero della malattia, perché il malato è sacramento di Cristo, che ripete a ciascuno: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Gesù si identifica profondamente con chi è malato: andare a trovarlo, per noi, significa molto più della sola vicinanza fisica e anche molto più del solo supporto psicologico. La vicinanza, l’esserci, la sensibilità di usare poche parole, quelle giuste, bastano: l’immagine è quella di Maria sotto la croce, che non dice parole ma c’è. La forza di essere accanto al sofferente è una forza di consolazione. C’è una solitudine che ogni malato ha, perché nessuno può sostituirsi alla sua dura prova, però si può stare accanto a lui; ma anche chi sta accanto è solo ed impotente, perché non ha strumenti che possano togliere la malattia di chi soffre: queste due solitudini diventano una consolazione, si abitano reciprocamente, diventano relazione profonda e nuova, orizzonte che dà un senso diverso alla sofferenza.
Ogni volta che andiamo a visitare un ammalato portiamo la forza salvifica, la capacità di mutare il male in bene, la capacità di annunciare la vittoria di Cristo sul male e sulla morte, doni che ci vengono dati da Cristo stesso nel Battesimo.
Per noi stare accanto a chi è malato significa veramente portare una forza nuova di salvezza, di cui non vediamo subito l’effetto, ma siamo sicuri che con la nostra presenza si apre una porta alla speranza del malato: nella sua solitudine c’è un nuovo abitante, uno che ha portato un senso diverso per la sua vita ed il suo dolore, aprendo il cuore alla speranza.
Se c’è un luogo vero per cogliere meglio chi siamo e come siamo, quello è il letto di un ammalato, perché la malattia è il luogo rivelatore del senso stretto della nostra umanità. Ogni vera consolazione, ogni autentica presenza cristiana accanto al malato fa bene non solo a lui, ma in primo luogo a chi si reca a visitarlo. Noi impariamo dai malati, perché essi sono soggetti di pastorale: la nostra non deve essere, infatti, una pastorale per i malati, ma una pastorale con i malati.
Dalla icona del Buon Samaritano ci viene un’altra sollecitazione: è la comunità cristiana nel suo insieme che deve farsi carico di questa sensibilità, non basta l’azione dei singoli. Gli atti che il Buon Samaritano pone in essere sono azioni che le nostre comunità cristiane nel loro insieme possono e debbono compiere. Per questo è necessario imparare a lavorare in rete, coordinati dall’Ufficio di Pastorale Sanitaria, perché la nostra sia sempre più una Chiesa in missione, che sappia cogliere i bisogni e conoscere le reali situazioni di tutti gli ammalati del territorio.
Molto spesso si tende a considerare la pastorale della salute come un settore parziale dell’attività della Chiesa, affidato solo ad un ridotto numero di specialisti, che ha per oggetto il conforto spirituale ed umano degli ammalati e dei loro familiari. Questa visione ristretta non tiene conto dell’identità missionaria della Chiesa che Gesù stesso ha delineato: «E strada facendo, predicate che il Regno dei Cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8). Gesù affida alla Chiesa la missione di prendere in carico l’uomo sofferente in tutte le sue dimensioni costitutive: corporea, spirituale, psicologica e sociale. La pastorale della salute, quindi, è un ambito imprescindibile ed indispensabile della nostra Chiesa locale per l’annuncio della salvezza portata da Cristo.
Tutta la comunità diocesana deve essere investita di questa missione, tenendo conto che è fondamentale un’adeguata formazione ad hoc, che si basi sui due pilastri portanti per essere buoni operatori di pastorale sanitaria: scienza e carità. La scienza senza carità si gonfia, mentre la carità senza la scienza vaneggia! Le soluzioni cliniche che la scienza oggi fornisce non devono mai entrare in contrasto con la necessità di assicurare la dignità della ed alla persona umana in tutte le fasi della sua vita terrena. La pastorale della salute deve delineare e mettere in atto quel processo di umanizzazione delle cure che è espressione della carità di Cristo verso le persone sofferenti, fornendo alla scienza una “coscienza del limite”, che molte volte sembra aver dimenticato.
La cultura in cui siamo immersi, protesa all’immediato ed al rapido raggiungimento dei propri scopi di efficienza e di guadagno, non si basa più sul concetto di “cura”, ma sul concetto di “scarto”. Lo scarto è il prodotto del consumo; quando non c’è più niente da consumare si produce lo scarto. Applicato all’ambito umano questo concetto produce una conclusione terribile: le persone non sono più un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri – o “non servono più” – come gli anziani o gli ammalati.
Di fronte alle problematiche che la coscienza dei credenti incontra alle due soglie dell’esistenza, la nascita e la morte, la pastorale della salute nella nostra Diocesi deve proporre all’attenzione di tutti la necessità di accompagnare e favorire la vita, proteggendone le fragilità. Essa deve promuovere nel nostro territorio la logica di uno sviluppo umano integrale, dal concepimento al fine vita, che si fonda sul concetto di “cura”: curare la vita dal suo naturale sorgere fino al suo naturale spegnersi. Questo concetto è l’unico che rappresenta un antidoto efficace contro la tentazione del “non servire ancora”, del “non servire più”, che molte volte colpisce anche molti credenti.
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»[1]. Il Servizio Sanitario Nazionale[2] nasce con il preciso scopo di assicurare quanto stabilito dalla Costituzione e garantire l’accesso alle sue strutture e l’erogazione delle prestazioni di diagnosi, cura e assistenza, secondo questi tre principi fondamentali:
Gravi sono nel nostro territorio le violazioni ai diritti del malato: corruzione, favoritismi, sprechi, frodi, malasanità, lunghezza delle liste di attesa per un semplice esame di routine. La criminalità organizzata da sempre è interessata al settore sanitario non solo per i tanti soldi che in questo campo girano, ma perché la sanità è uno strumento per mantenere il consenso ed il controllo del territorio.
Il dilagare dell’illegalità nella filiera sanitaria è alimentata anche grazie alla connivenza della cosiddetta “zona grigia”, costituita da “colletti bianchi”, funzionari e tecnici compiacenti, imprenditori e politici corrotti. La corruzione costa, ma chi ne paga il prezzo è l’umile nostra gente, che molte volte deve affrontare i drammatici “viaggi della speranza” per potersi curare altrove. Tutto ciò è un cancro che uccide piano piano la fiducia degli ammalati nelle istituzioni, alimentando un diffuso senso di sospetto.
La nostra Chiesa ha il dovere di pronunciarsi e schierarsi a fianco di chi soffre di questi ingiusti trattamenti. Deve diventare un segno profetico, affinché i diritti di ogni persona malata possano essere rispettati; deve denunciare ad alta voce il mancato rispetto della dignità della persona umana nel momento più delicato della sua esistenza: la malattia. Deve uscire dalla zona d’ombra dell’indifferenza e del disinteresse e richiedere l’applicazione del principio di giustizia sociale coniugato con la carità di Cristo. Solo così sarà una Chiesa schierata con gli ultimi e in difesa dei loro diritti.
[1] Costituzione della Repubblica Italiana, Titolo II, Art. 32.
[2] Istituito con la Legge del 23 dicembre 1978, n. 833.
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»[1]. È l’incontro con Cristo, dunque, che determina l’essere cristiano: l’uomo che si accosta a Gesù scopre il motivo vero della gioia che sgorga nel suo cuore: l’essere amato. E l’amore è “effusivum sui”, tende a diffondersi: chi ha sperimentato l’amore sprizza gioia da tutti i pori. Domandiamoci: la nostra Chiesa locale è luogo attraente di gioia? Le nostre comunità trasmettono il gaudio dell’incontro con Cristo? Il singolo battezzato che vive la sua fede è testimone di gioia? Si può essere cristiani, infatti, senza aver mai incontrato Cristo sul serio. Lo si può fare perché si è entrati nella logica di una dottrina, magari imposta o accettata tradizionalmente per convenzione sociale, ma non si è mai fatto un incontro personale con il Signore. In questo caso il Vangelo si è ridotto ad essere semplicemente una raccolta di massime o di precetti morali che non causano gioia. Per chi, invece, ha fatto esperienza dell’incontro con Cristo il Vangelo è una persona portatrice di gioia, quella vera, quella che scaturisce dall’Amore della Trinità, manifestato in pienezza dalle parole e dalle opere di Gesù. Poiché nessuno può dare ciò che non ha, si rende necessaria nella nostra realtà diocesana una prima e fondamentale conversione ad intra: reincontrare Cristo, sorgente della vera gioia.
È oltre modo urgente favorire questo nuovo incontro in qualsiasi maniera e con gli strumenti oggi messi a nostra disposizione, adeguandosi ai tempi, alle diverse età dei soggetti interessati e ai differenti contesti delle nostre comunità parrocchiali. Solo così all’uomo e alla donna della Piana, cercatori di felicità come tutti gli altri uomini e donne, potremo dare una risposta con la nostra testimonianza vissuta: “la gioia è Cristo; io l’ho sperimentata; io ti posso accompagnare da Lui, perché anche tu la possa sperimentare”. Ed è grazie a questa comunicazione che possiamo uscire dalla nostra autoreferenzialità e giungere ad essere pienamente umani. «È certo che l’uomo può escludere Dio dall’ambito della propria vita. Ma questo non si verifica senza conseguenze gravissime per l’uomo stesso e per la sua dignità di persona. L’allontanamento da Dio porta con sé la perdita di quei valori morali che costituiscono la base ed il fondamento della convivenza umana. E la sua assenza produce un vuoto che si pretende di colmare con una cultura – o meglio, pseudocultura – incentrata sul consumismo sfrenato, nell’ansia di possedere e godere, e che non offre altro ideale se non la lotta per i propri interessi ed il piacere narcisista»[2]. La missione della nostra Chiesa deve stimolare, dunque, gli uomini e le donne a cui si rivolge ad un continuo pellegrinaggio, che li conduca, attraverso i vari deserti della loro vita e le varie forme di fame e sete di giustizia, fino ad arrivare a gustare la gioia dell’amore di Dio, che sola può realizzare la loro esistenza.
[1] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 1.
[2] Giovanni Paolo II, Omelia durante la S. Messa nel Santuario della Madonna “de la Cinta” a Huelva (Spagna), 14 giugno 1993, AAS 86 (1994), pp. 270-276.
Cos’è la gioia vera per il cristiano? La risposta ci viene dall’Evangelii Gaudium di Papa Francesco:
Gioia è far entrare nella propria vita il Verbo fatto carne e testimoniare di essere una sola cosa con Lui, di portare in sé gli stessi sentimenti suoi (cfr. Fil 2,5) e di irradiare intorno a sé non un’effimera gioia umana, bensì il gaudio di Colui che ci ha promesso che il suo amore ci è stato donato perché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena (cfr. Gv 15,11). La vera gioia può nascere quando siamo in grado di guardare a noi stessi con gli occhi di Dio, accettandoci per quello che siamo: non con gli occhi della nostra superbia, della nostra vanagloria, della nostra presunzione, ma con gli occhi della infinita misericordia dell’Altissimo: «Signore, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa» (Sal 144, 3-4). «Eppure lo hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,6). Deboli, fragili, peccatori ma uomini; esseri umili che non si devono affannare di mostrarsi agli altri per quello che non sono, ma come creature riconciliate con se stesse e con Dio, capaci di riconoscere i propri peccati e di esprimere nella gioia la professione di fede in Gesù Cristo Risorto, che «torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce quest’amore infinito ed incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia»[1]. Quando, poi, una persona guarda se stessa con gli occhi di Dio non può non guardare anche gli altri con i medesimi occhi. La gioia, in questo caso, nasce dal considerare l’altro così com’è, come Dio l’ha pensato e voluto: un fratello, o meglio un altro me stesso. Chi non ama il fratello non potrà mai essere nella gioia, perché essa è dono dello Spirito e frutto dello Spirito è l’amore (cfr. Gal 5,22). Amore e gioia sono la medesima cosa, per questo chi non ama non potrà mai vivere nella gioia. L’amore verso il prossimo è l’unico modo con cui possiamo essere credenti quando affermiamo di amare Dio, perché solo l’amore è credibile[2]. «Se uno dicesse “io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
[1] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 3.
[2] Cfr. H. U. Von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Roma 1991.
La gioia è propria del discepolo e dimostrazione eloquente della sua fede, cioè della sua conformazione a Cristo. Questa fede ci porta ad una evidente novità: «Nella fede Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere»[1]. La gioia di chi crede è quella di chi si sente trasformato dall’amore al punto da dilatare la propria esistenza oltre se stesso[2]. Perciò l’esistenza del singolo credente diventa esistenza ecclesiale. Il cristiano comprende se stesso nel corpo della Chiesa, in relazione a Cristo ed ai fratelli. Fuori da questo corpo «la fede perde la sua misura, non trova più il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi»[3]. La fede diventa, così, operante nel cristiano, partendo dal dono dell’amore ricevuto, che attira verso Cristo e rende partecipi del cammino della Chiesa. «Per chi è trasformato in questa maniera, si apre un nuovo modo di vedere, la fede diventa luce per i suoi occhi»[4] e gioia per il suo cuore. Questa gioia va annunciata: san Paolo chiama i servitori del Vangelo “servitori della nostra gioia” (cfr. 2Cor 1,24). J. Ratzinger così afferma: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu và e annuncia il Vangelo, annuncia il lieto messaggio. Lavorare in questo mondo per gli averi ed i possedimenti in fondo significa affannarsi per ciò che è morto. Tu invece abbandona il lavoro dei morti di questo mondo e annuncia la gioia […]. Questa gioia noi la troviamo se abbiamo il coraggio di farci incendiare dal messaggio del Signore. E quando l’avremo trovata, potremo farla ardere, poiché allora saremo servitori della gioia in un mondo di morte»[5].
[1] Francesco, Lettera Enciclica Lumen fidei, n. 18.
[2] Ibidem, n. 21.
[3] Ibidem, n. 22.
[4] Ibidem, n. 22.
[5] J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia. Meditazioni sulla spiritualità sacerdotale, Milano 2002, pp. 39-40.
La santità, comune vocazione di tutti nella Chiesa, consiste essenzialmente nella unione con Cristo, nella realizzazione della figliolanza divina ricevuta come pegno nel Battesimo. La santità è vivere, riempiti dei doni dello Spirito, per la gloria di Dio[1]. Vivere da figli di Dio non vuol dire solamente entrare in una relazione personale con il Padre, ma vuol dire anche vivere da fratelli: «L’amore ci fa tendere verso la comunione universale. Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi. Per sua stessa dinamica l’uomo esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza. Gesù ci ha detto: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8)»[2]. A questo proposito occorre ribadire che essere tutti fratelli non è solo un mero desiderio intellettuale o uno sterile concetto lessicale. Essere fratelli vuol dire “rimanere unanimi e concordi, avere un medesimo sentire”; questo è ciò che rende piena la gioia di san Paolo (cfr. Fil 2,2). Papa Francesco sottolinea un aspetto negativo affermando: «Non ci fa bene guardare dall’alto verso il basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza»[3]. Vivere da fratelli con coerenza vuol dire essere santi e il cristiano santo è gioia che cammina per le strade del mondo. Il santo non è un triste, acido, malinconico; il santo trasmette gioia[4]; il malumore non è segno di santità[5]. Il Signore ci vuole positivi, grati e non troppo complicati, con uno spirito flessibile[6]. Questa non è la gioia consumistica, ma la gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa e che rende capaci di gioire per il bene degli altri[7]. Ecco allora delineato il volto della Chiesa che si vuole far emergere per il futuro del popolo di Dio che vive e cresce in questo territorio della Piana: una Chiesa della gioia; una Chiesa «comunità chiamata a creare quello spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore Risorto»[8]; una Chiesa comunità che «custodisce i piccoli particolari dell’amore»[9]; una Chiesa controtendenza, dove la libertà di proclamare la verità diventa stile di vita e sigillo della Spirito; una Chiesa che non resti paralizzata dalla paura e dal calcolo, che non si limiti a camminare soltanto entro confini sicuri, che non si lasci irretire dalle abitudini e che non si rassegni nel dire che non ha senso cambiare le cose. È necessaria una Chiesa che si lasci «risvegliare dal Signore»[10], perché diventi una Chiesa liberata dall’inerzia e rianimi il «coraggio apostolico di comunicare il Vangelo agli altri e di rinunciare a fare della nostra vita un museo di ricordi»[11]. Aneliamo ad una comunità ecclesiale che testimoni la verità dell’incontro con il Risorto, la sua fede in Lui e che indichi in questo rapporto l’unica fonte della sua gioia; una gioia che, riempiendo la vita dei discepoli, diventa gioia missionaria[12].
[1] Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium, nn. 39-40.
[2] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti, n. 95.
[3] Francesco, Esortazione Apostolica Gaudete et exultate, n. 117.
[4] Cfr. Ibidem, n. 122.
[5] Cfr. Ibidem, n. 123.
[6] Cfr. Ibidem, n. 127.
[7] Cfr. Ibidem, n. 128.
[8] Ibidem, n. 142.
[9] Ibidem, n. 145.
[10] Ibidem, n. 137.
[11] Ibidem, n. 139.
[12] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 21.
La Chiesa in uscita che annuncia la gioia del Vangelo deve saper riconoscere e accogliere coloro che sono alla ricerca di Dio. Gli occhi sono il primo strumento che può consentire l’avvicinamento e l’accoglienza. Con gli occhi, infatti, possiamo guardare chi ci cammina accanto, osservarlo senza giudicarlo, accorgerci se è in uno stato di bisogno. Con gli occhi possiamo comunicare inizialmente la nostra disponibilità e possiamo comprendere lo stato d’animo dell’altro: può essere di gioia, di serenità, ma anche di paura, di necessità, di disperazione, di sconforto. A volte è proprio con lo sguardo che ci viene chiesto aiuto, prima ancora che con le parole. Scrutare gli occhi dell’altro, senza abbassare lo sguardo o senza guardare altrove, significa accogliere il Signore che ci guarda con quegli occhi. L’impegno della nostra Chiesa deve essere quello di vincere la tentazione dell’indifferenza e di spalancare fissi gli occhi verso chi, scrutandoci, esprime tutto il suo desiderio di essere accolto, amato ed aiutato.
È con la bocca, poi, che si spalanca la porta perché l’altro possa entrare in contatto con noi e, attraverso di noi, con l’intera comunità. L’espressione più bella di accoglienza è il sorriso, che fa sentire a proprio agio chi lo riceve. Con la bocca ci esprimiamo, articoliamo il linguaggio, comunichiamo. E sappiamo quanto le parole siano importanti: possono far avvicinare o allontanare, qualche volta anche definitivamente, le persone. Con la bocca possiamo proclamare le meraviglie che Dio ha compiuto nella nostra vita e annunciare il Vangelo, già assimilato, compreso e vissuto nella nostra esperienza di fede. Tutti i componenti della nostra Chiesa hanno il compito di gridare con la loro bocca con gioia ed emozione: «Abbiamo trovato il Messia!» (Gv 1,41) a chi ancora lo cerca, anche inconsapevolmente, o a chi lo ha smarrito lungo i meandri della sua vita. Troppe volte la bocca viene utilizzata per denigrare, criticare, ferire, giudicare e le conseguenze, purtroppo, sono pesanti, spesso tragiche o drammatiche, perché costituiscono come un muro invalicabile, che esclude irrimediabilmente dalla comunione ecclesiale. Quale grande responsabilità abbiamo, dunque, nell’utilizzare la ricchezza della bocca per l’accoglienza dei fratelli! Impegniamoci ad usarla bene per parlare soprattutto dell’amore di Dio che, unico, può trasformare la nostra vita e quella delle nostre comunità.
La testimonianza della vita si fa più sincera ed efficace quando è seguita e accompagnata dalla carità. Le mani e le braccia sono strumenti importanti di accoglienza: tese verso l’alto in segno di preghiera; tese verso i fratelli nel segno meraviglioso della carità: mani aperte per aiutare, per donare, per sorreggere, per abbracciare, per stringersi con altre mani senza badare al loro colore, per dare pacche sulle spalle e incoraggiare, per accarezzare chi ci ama ma anche i piccoli, i malati, chi è nel bisogno. Piccoli gesti che nascondono un grande significato: io sono qui, so che esisti, so che hai bisogno di me e non ti abbandonerò, ti sono vicino per qualsiasi tua necessità. Di occasioni per tendere braccia e mani ce ne sono tante nella nostra terra: a partire dal vicino di casa per finire allo straniero, che casa non ha. Se la nostra Chiesa non stende le sue braccia e non apre le sue mani come segno di una carità fattiva ed accogliente, si ridurrà sempre di più ad una struttura meramente burocratica e priva dello Spirito vitale del Signore. Chiesa dalle braccia aperte, segno di quell’Amore che tutti ama senza distinzioni, deve essere, dunque, la nostra comunità diocesana e le nostre singole Parrocchie. La prima e fondamentale forma di accoglienza è riconoscere la dignità dell’altro, rispettarlo, non giudicarlo, avere comportamenti che rispettino la giustizia e la legalità, perché questo consente all’altro di usufruire dei suoi diritti. Noi cristiani siamo chiamati a dare una chiara testimonianza a questo riguardo, ma abbiamo bisogno di fare un profondo cammino di conversione.
La Chiesa per sua natura costitutiva è sempre in cammino, in uscita, mandata dal suo Capo e Signore ad annunciare al mondo il Vangelo di salvezza. I piedi, dunque, sono un altro strumento importantissimo per andare incontro all’altro ed accoglierlo. Piedi per raggiungere chi è lontano, per aiutare chi ha difficoltà a camminare, piedi che lasciano orme ben visibili perché altri possano seguire la medesima via, piedi che non si fermano di fronte alle difficoltà ma che sanno aggirare gli ostacoli posti sulla strada dal maligno. «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”» (Is 52,7). Camminare insieme è il segno che la Chiesa è in movimento verso il suo Signore che viene e in questo percorso non deve lasciare indietro nessuno; piuttosto, se qualcuno resta fermo nelle retrovie o sbaglia strada o cade e si ferisce, la Chiesa si ferma, raggiunge chi si è smarrito, rassicura e incoraggia chi pensa di non farcela, cura chi si è ferito, versando sulle sue piaghe il vino e l’olio della grazia di Cristo, Buon Samaritano, che al suo arrivo la ricompenserà per la missione compiuta.
L’accoglienza di chi è alla ricerca di Dio permette di inserire nuovi membri nella comunità, ravvivandola ed arricchendola con i doni e le competenze che essi portano. Ciò potrà avvenire in pienezza solo attraverso un atteggiamento di apertura che esprima amore disinteressato, fraternità sincera e volontà di costruire relazioni di sostegno all’interno di una Chiesa amica ed ospitale, dove ci si senta davvero come in una famiglia. Tante volte chi cerca di entrare nella comunità si presenta carico di domande, problemi, bisognoso prima di tutto di comprensione, bastonato dalla vita. Siano, dunque, le nostre comunità come un “ospedale da campo”, dove accogliere, guarire, accompagnare chi bussa alla nostra porta: non un ospedale istituzionale, con la sua asetticità, ma animato da forte solidarietà e capace di spostarsi di luogo in luogo. La nostra Chiesa sia vicina ai giovani, ai poveri, agli scartati, ai lontani; sia gioiosa, generosa, audace, piena d’amore e di vita. Una comunità a totale servizio di Dio e che non si serve di Dio, ma è attenta ai bisogni di ogni uomo. Una Chiesa aperta, amante delle cose pulite e giuste, senza lo scandalo di inimicizie al suo interno.
Non ci può essere accoglienza senza ascolto: è una dimensione umana ed ecclesiale necessaria perché è il tramite che agevola ogni relazione. Per il futuro della nostra Chiesa diocesana è, dunque, urgente puntare su una realtà comunionale molto più vicina ai problemi concreti degli uomini di oggi e che sia più pronta ad ascoltare, avviando uno stile nuovo di presenza pastorale, costituito meno di cose da fare e più disposto a intercettare il grido che nasce dai bisogni dell’umanità della Piana. Solo recependo il messaggio di richiesta si potrà dare inizio a relazioni amichevoli e familiari da creare e da coltivare all’interno delle comunità parrocchiali con maggiore attenzione, tempo e disponibilità. Oggi nei nostri paesi tanta gente soffre di solitudine e di mancate relazioni. La situazione è stata ancor di più aggravata dalla lunga esperienza della pandemia. Compito della nostra Chiesa in cammino è aprire gli orecchi e ascoltare, scrutare l’orizzonte ed accogliere le sfide che si presentano, hic et nunc, nella nostra società. Ciò che accade intorno a noi non possiamo considerarlo come qualcosa che non ci interessa. Non dobbiamo tapparci gli orecchi, coprirci gli occhi e continuare a fare ciò che abbiamo sempre fatto: le nostre processioni, le nostre devozioni, i nostri incontri più o meno autoreferenziali, riservati ai pochi eletti che ancora ci seguono. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»[1]. Ascoltare la richiesta di aiuto e renderci solidali con gli uomini del nostro tempo e la loro storia: questo è il compito di una Chiesa in cammino nel mondo incontro a Cristo che viene.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 1.
Una colpa, purtroppo, frequente nella nostra Chiesa è l’omissione. Quante volte accade nelle comunità di trascurare una situazione di bisogno, di far finta di non sentire il grido di aiuto di qualcuno e, magari, ci si è voltati da un’altra parte per non vedere oppure abbiamo cambiato strada per non intercettare il bastonato dalla vita, che si aspetta da noi una mano tesa. È la cultura dell’indifferenza da cui siamo influenzati che, a volte, ci rende incapaci di vera compassione e lenti nel rispondere a una situazione di bisogno, qualsiasi essa sia. Papa Francesco nella Lettera Enciclica “Fratelli tutti” riprende la parabola del Buon Samaritano per ricordarci, attraverso il protagonista, la compassione e la tenerezza di Dio a cui continuamente dobbiamo richiamarci, per dirci che la fraternità è la migliore possibilità per crescere e vivere come persone credenti e come comunità, per aiutarci a pensare a noi stessi e agli altri come a fratelli che vivono nella stessa casa comune. Il viandante che scendeva da Gerusalemme a Gerico, lasciato moribondo ai margini della strada, rappresenta per noi oggi l’umanità del nostro territorio ferita ed abbandonata tra le “dense ombre” che gravano su di essa[1]. È l’immagine dei tanti uomini e donne che subiscono povertà, fame, oppressione, sfruttamento, violazione dei diritti umani, sopruso, umiliazione, tratta, schiavitù, razzismo, migrazione, emarginazione, ingiustizia … Il Buon Samaritano raffigura per noi il modello da seguire nella nostra azione: è l’esempio di chi ascolta il grido del bisogno e si muove per aiutare; è colui che sa vedere l’altro nella sua necessità perché lo guarda con gli occhi del cuore e, perciò, osa amare; è colui che sa donare del suo tempo per farsi prossimo; è colui che si fa incontro per prendersi cura del debole di diversa etnia o religione; è colui che si fa dialogo e relazione per includere altre persone nel compiere il bene. All’amore e alla misericordia non importa il popolo di appartenenza o la provenienza di un uomo ferito perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; è l’amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità»[2]. Il fratello da sostenere non è definibile né programmabile: è semplicemente chi incontriamo nelle nostre giornate normali e che ci rivolge la sua richiesta di aiuto nel suo bisogno. Si tratta, allora, di fare nostri i verbi usati da Gesù, Buon Samaritano: ascoltare, vedere, avere compassione, avvicinarsi, farsi prossimo, versare l’olio ed il vino della grazia, fasciare le ferite, caricare sul proprio giumento, portare nella locanda, prendersi cura, estrarre due denari. «Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani e tiriamole a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo»[3].
[1] Cfr. Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti, nn. 54 e 72.
[2] Ibidem, n. 62.
[3] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, n. 15.
L’ascolto è essenziale nella vita della Chiesa: diventa condizione necessaria per stabilire relazioni vive, significative, cordiali e rispettose delle persone. L’obiettivo da raggiungere è che ogni individuo, che viene a contatto con i membri della comunità, si senta desiderato, amato, bene accolto ed aiutato. L’ascolto è un incontro di libertà, che richiede pazienza, disponibilità a comprendere, impegno a elaborare risposte adeguate, là dove è possibile. Lo stile da utilizzare è quello di Cristo per quanto concerne l’attenzione e l’accoglienza delle persone: sia tipico del modus vivendi della nostra Chiesa ascoltare come Lui, partecipando profondamente alle sofferenze e alle speranze umane. Come Lui apriamo le porte delle nostre comunità per accogliere il maggior numero ed offrire loro l’Amore che libera e salva, che consola e dà forza. Questo tipo di comportamento richiede impegno, calma, concentrazione, intuizione, discernimento, lettura dei messaggi gestuali, valutazione oggettiva. Ascoltare implica, inoltre, spogliarsi dei problemi personali, dimenticando l’orologio e non preoccupandosi di dare risposte ad ogni costo o di risolvere problemi più grandi di noi: non siamo noi che dobbiamo salvare il mondo, c’è già Gesù che l’ha salvato; noi siamo solo strumenti, umili ma necessari, nelle mani di Dio.
Dall’ascolto nasce, poi, il dialogo, fattore fondamentale per far capire, vicendevolmente, le proprie posizioni. Duplice abilità è necessario applicare nel dialogare:
Il dialogo vissuto in tal modo consente l’atteggiamento di apertura totale che permette di conoscersi, accettarsi vicendevolmente con il proprio modo di essere, pensare ed esprimersi, condividendo gioie, fatiche, desideri, speranze e valori. Questo per noi non significa uniformarsi allo spirito del mondo o farsi influenzare da posizioni contrarie alla nostra fede, bensì, chi è sicuro di se stesso e di ciò in cui crede sa assumere ed incarnare uno stile relazionale nuovo con il quale testimoniare la sua fede in maniera evidente e così può diventare un dono per l’altro. Il binomio dialogo-dono è imprescindibile nell’ecclesiologia di comunione postconciliare, che deve nutrire e trasformare il cammino della nostra Chiesa.
Due sono le vie del dialogo per la nostra comunità diocesana: il primo e fondamentale è il dialogo ad intra. È necessario promuovere ed incentivare un dialogo autentico e costruttivo tra clero e laici, per dare testimonianza di autentica comunione ecclesiale e di fecondo slancio pastorale sia a livello parrocchiale che a livello diocesano. Devono essere evitati i due pericoli che si stagliano sullo sfondo: la laicizzazione del clero e la clericalizzazione dei laici. Unicuique suum: nel rispetto delle proprie competenze e ciascuno secondo la propria missione, preti e laici abbiano coscienza viva di trovarsi sulla stessa barca, la Chiesa, in mezzo alla tempesta di questo mondo ed ognuno deve apportare il suo contributo specifico per portare la nave al porto sicuro della salvezza, remando tutti all’unisono e nella stessa direzione. Compito della Diocesi è formare gli uni e gli altri a questo dialogo, che ha luoghi precisi di svolgimento: il Consiglio Pastorale, Parrocchiale e Diocesano, e il Consiglio per gli Affari Economici, Parrocchiale e Diocesano. Sia data agli organi di partecipazione comunionale dei laici il giusto valore e la fondamentale rilevanza per tenere sempre davanti agli occhi qual è il fine ultimo di questa collaborazione e del dialogo: la santificazione delle realtà temporali e la corresponsabilità nella pastorale ordinaria delle Parrocchie e della Diocesi.
La seconda via di dialogo è quello ad extra: innanzitutto con le confessioni cristiane e le altre confessioni religiose, soprattutto con i musulmani, molto presenti nella nostra terra. Il dialogo tra le religioni è un segno dei tempi che la Chiesa cattolica ha accolto come dono del Signore e rientra a pieno titolo nella missione di evangelizzazione, favorendo l’incontro tra fedi diverse per la conversione reciproca verso l’unico Dio, che è Padre di tutti. «La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini»[1]. È importante favorire, attraverso lo stile missionario della nuova evangelizzazione, il dialogo interreligioso e curare con più determinazione una formazione ad hoc per tutti gli operatori pastorali.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate, n. 2.
È altrettanto necessario mantenere aperto il dialogo tra scienza e fede. Esso deve essere parte integrante della nuova azione evangelizzatrice. «Fides quaerens intellectum»[1]: la fede vuole l’aiuto dell’intelligenza, non ha paura della ragione; al contrario la cerca ed ha fiducia in essa perché la luce della ragione e quella della fede vengono ambedue da Dio e non possono contraddirsi tra di loro. «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo ed amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso»[2].
È necessario, dunque, che la nostra Chiesa alimenti il dialogo con la scienza e con la tecnica, tanto più che esse possono fornire, con il loro linguaggio evoluto e conosciuto soprattutto dalle giovani generazioni, un valido aiuto per la comunicazione del Vangelo nel mondo di oggi. Inoltre, il confronto permetterà alla nostra comunità di non essere anacronistica e di poter incanalare le ricerche e le scoperte nell’alveo di una interpretazione credente: chi muove l’intelletto alla conoscenza ed alla ricerca è Dio, che continua a rivelare la Verità sull’uomo e sul creato attraverso la attività scientifiche.
[1] Sant’Anselmo d’Aosta, Proslogion. Fides quaerens intellectum. Alloquium de ratione fidei, 1078.
[2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et Ratio, Proemio.
Una particolare risorsa per il dialogo ad intra e ad extra nella nostra Chiesa è costituita dalla ricchezza di arte e di storia custodita in tante Parrocchie: edifici, dipinti, sculture, suppellettili, paramenti sacri, archivi e biblioteche possono diventare terreno d’incontro con tutti.
La via pulchritudinis aiuta a disvelare la stessa salvifica dottrina. Questo patrimonio documenta visibilmente il percorso fatto dalla Chiesa nel culto, nella catechesi, nella cultura e nella carità. L’arte quindi, come una sorta di “Cortile dei Gentili”, nasce per la comunità cristiana, ma è fruibile anche da un pubblico di diversa estrazione culturale e religiosa per farsi, come tutti i luoghi ecclesiastici, punto di accoglienza che diventa predicazione del Vangelo della carità.
Basta poco a risvegliare un interrogativo e a far partire il dialogo sulla fede: ad esempio illuminare un dipinto solitamente in ombra e/o offrire un sussidio minimo per sottolinearne il significato religioso. Tutto ciò è sufficiente per far sentire i visitatori accolti e far penetrare in loro l’interesse per un mistero affascinante pronto a rivelarsi. Si tratta di continuare ad intessere il dialogo tra fede e cultura e ad incidere su quest’ultima, valorizzando l’eredità cristiana in essa ancora presente, sia pure in maniera disarticolata e sfigurata, ma pronta a riemergere in alcune circostanze come speranza o come nostalgia. Questa presenza ed azione culturale rappresentano un terreno importante perché il primo annuncio non cada in un’atmosfera estranea e/o ostile[1]. Sulla correlazione tra annuncio e cultura andrebbe quindi sviluppata nella nostra realtà ecclesiale una “pastorale dell’intelligenza” per la quale le Parrocchie dovranno avvalersi dell’apporto e della collaborazione di istituzioni, centri e associazioni culturali.
[1] Cfr. Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, nn. 319-393.
Un richiamo quasi unanime che è venuto fuori dai “Desiderata” è quello del discernimento. Cosa è il discernimento? Quanto all’etimologia, deriva dal verbo latino “discernere”, composto da “cernere” (vedere chiaro, distinguere) preceduta da “dis” (tra): dunque, discernere significa “vedere chiaro tra”, osservare con molta attenzione, scegliere separando. Il discernimento è un’operazione, un processo di conoscenza, che si attua attraverso un’osservazione vigilante e una sperimentazione attenta, al fine di orientarsi nella propria vita, sempre segnata dai limiti e dalla non conoscenza. Come tale è un’operazione che compete ad ogni uomo e ad ogni donna per vivere con consapevolezza, per essere responsabile, per esercitare la sua coscienza. Nel cristiano il discernimento si manifesta come sinergia tra il proprio spirito e lo Spirito Santo: «Lo Spirito attesta al nostro spirito …» (Rom 8,16). Il discernimento cristiano non è riconducibile ad una tecnica di introspezione o di maggiore conoscenza di sé, ma è un itinerario che richiede l’intervento di un dono dello Spirito Santo, di un’azione di Grazia: ascoltare lo Spirito, ascoltare la voce di Dio che parla nel cuore dell’uomo, nella creazione e negli eventi della storia, richiede di riconoscere, innanzitutto, questa voce tra le tante che si ascoltano nell’esperienza umana, nella consapevolezza che la voce di Dio non si impone, non comanda perentoriamente, ma suggerisce e propone, anche con un sottile silenzio (cfr. 1Re 19,12), lasciando libertà all’uomo di accoglierla. Una volta riconosciuta la voce di Dio, il discernimento è quel processo che porta ogni cristiano, nelle diverse situazioni con cui si trova a confrontarsi, a fare una scelta, a prendere hic et nunc una decisione per far convergere la sua via con quella indicata da Dio. «Infatti la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
A livello personale ci si chiede oggi nella nostra Diocesi se la scelta per il cammino di fede nasce dal discernimento di ognuno o piuttosto non sia frutto di convenzione sociale o di tradizione (nel senso peggiore del termine) o di abitudine: nel secondo caso è messa a repentaglio la stessa vita cristiana.
È indispensabile, allora, per non correre tale rischio, recuperare la via del discepolato con la consapevolezza di essere, nella nostra storia contemporanea, destinatari dello stesso invito che Gesù rivolse ai suoi primi discepoli: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,19). Se vogliamo rafforzare l’identità e lo stile cristiano nella nostra terra dobbiamo essere capaci di discernere innanzitutto se le scelte personali sono in linea con il Vangelo e il magistero ecclesiastico, per poi discernere i vari carismi e le varie ministerialità dei fedeli laici affinché tutti possano, accogliendo la volontà di Dio su di loro, intraprendere la via e portare a compimento il cammino che Lui stesso ha preparato per ognuno.
Il discernimento, oltre che a livello personale, si presenta come indispensabile anche a livello comunitario. Per comprenderne il valore non si tratta di moltiplicare semplicemente le indicazioni del discernimento personale per un numero maggiore di soggetti. Infatti, la comunità ecclesiale è un organismo vivente a sé stante e come tale è molto più che la semplice somma dei suoi componenti. Il discernimento comunitario è così un’azione che compie tutta la comunità cristiana in quanto comunità e che quindi si caratterizza per regole e aspetti peculiari. In un tempo come il nostro, intermedio tra una stabilità passata e una ancora da raggiungere, non è possibile ragionare con il “si è sempre fatto così”. Si tratta, invece, di discernere la strada che Dio sta tracciando per noi. Egli, infatti, ci ama di un amore misericordioso, attento, vigile, provvidente, impegnato a comunicarci ciò che è buono e a indicarci la via del bene comune. Si tratta di ascoltare la sua voce che ci guida e non indurire il cuore su vecchi schemi e comodi percorsi che siamo abituati a seguire. È come se oggi la nostra Chiesa diocesana si trovasse davanti ad un incrocio, dove molte vie sono aperte e ci sono tanti segnali stradali di foggia, colore e stile diversi, tra i quali non è immediato riconoscere le indicazioni corrette. Sappiamo, però, per fede nell’amore misericordioso, che Dio è passato prima di noi ed ha posto, tra i tanti, i suoi segnali per indicarci la via da seguire. Il compito del nostro Sinodo è proprio quello di discernere insieme, sotto la guida dello Spirito Santo, i segnali di Dio e così intraprendere la strada giusta. In questo compito importantissimo ci possiamo avvalere della storia e dell’esperienza di tutta la Chiesa: essa si è trovata tante volte in condizioni simili alla nostra per questo la sapienza ecclesiale ha sviluppato indicazioni preziose su cui si basa l’arte del discernimento comunitario. I progetti pastorali che nasceranno dal nostro “sinodare” saranno frutto dello Spirito Santo, oltre che del nostro lavoro: accogliendo la sua energia vitale e il suo dinamismo rigenerante, siamo sicuri di poter indirizzare la nostra Chiesa sulla strada giusta: vivere il Vangelo di Cristo con quella purezza e integrità di spirito, capace di reimmettere nel cammino della santità le nostre comunità.
«L’emergenza educativa ha un suo compito specifico in ordine al progresso e allo sviluppo dell’educazione»[1] e la Chiesa considera la scuola un nuovo Areopago dell’annuncio. Nel nostro territorio la povertà educativa è un dato che può diventare sempre più allarmante a causa dello stato socio-economico e culturale della famiglia e la «scuola si trova […] ad affrontare una sfida molto complessa, che riguarda la sua stessa identità e i suoi obiettivi»[2].
Nella Chiesa diocesana si riconosca sempre più come essenziale il compito educativo della scuola con la quale si impegna a collaborare in ogni ambito possibile e in particolare nella lotta alla dispersione scolastica di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, in prevalenza immigrati[3], e nell’abilitare studenti e studentesse all’ingresso nel mondo del lavoro e delle professioni, alla cittadinanza attiva e ai valori che la sorreggono: la solidarietà, la gratuità, la legalità e il rispetto delle diversità[4].
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum educationis, Proemio.
[2] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 46.
[3] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 14: «In tale prospettiva, la nostra attenzione si rivolge in modo particolare al fenomeno delle migrazioni di persone e famiglie, provenienti da culture e religioni diverse. Esso fa emergere opportunità e problemi di integrazione, nella scuola come nel mondo del lavoro e nella società. Per la Chiesa e per il Paese si tratta senza dubbio di una delle più grandi sfide educative»
[4] Ibidem.
La presenza a scuola di docenti credenti[1], insieme all’impegno responsabile di tutta la comunità scolastica, può contribuire a far superare i momenti di disorientamento e di difficoltà determinati nei giovani da una diffusa cultura intollerante e aggressiva, dalla fragilità del rapporto scuola-famiglia, da un uso egoistico e sconsiderato delle cose e della natura. Essi promuovono: la cultura dell’incontro, l’alleanza tra scuola e famiglia e l’educazione ecologica.
[1] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 46: «La comunità cristiana vuole intensificare la collaborazione permanente con le istituzioni scolastiche attraverso i cristiani che vi operano».
[2] Cfr. Francesco, Messaggio all’AMCI in occasione del Congresso nazionale (ottobre 2021); Cfr. anche Papa Francesco Amoris Laetitia, nn. 259-290.
[3] Cfr. Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, nn. 209-215.
[4] Francesco, Messaggio all’AMCI in occasione del Congresso nazionale (ottobre 2021).
Nella scuola docenti, genitori e dirigenti formano, insieme agli alunni, una grande comunità educativa, chiamata alla solidarietà e a un cammino comune nella ricerca e nell’amore della verità, un luogo dove la rete complessa dei rapporti interpersonali contribuisce a renderla una comunità vera e veramente formativa e attenta alle esigenze dei giovani. «A volte il dolore dei giovani è lacerante; è un dolore che non si può esprimere a parole; è un dolore che ci colpisce come uno schiaffo. Questi giovani possono solo dire a Dio che soffrono molto, che è troppo difficile per loro andare avanti»[1].
Per questo motivo, il Sinodo esorta le comunità educative ad impegnarsi a trasmettere alle giovani generazioni il senso della vita e della storia, i valori umani e cristiani, il valore della libertà e della solidarietà, i principi dell’Europa nostra casa comune, il dono della pace; ad aiutare i giovani a sviluppare le capacità di cui sono dotati per dare qualcosa al mondo, a rispondere al loro sogno di fraternità e di una vita diversa[2].
«Il carattere pubblico [della scuola] non ne pregiudica l’apertura alla trascendenza e non impone una neutralità rispetto a quei valori morali che sono alla base di ogni autentica formazione della persona e della realizzazione del bene comune. In questa prospettiva, è determinante la formazione degli insegnanti, dei dirigenti scolastici e del personale amministrativo e ausiliario, chiamati a essere capaci di ascolto delle esperienze che ogni alunno porta con sé, accostandosi a lui con umiltà, rispetto e disponibilità»[3].
[1] Francesco, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus vivit, n. 77.
[2] Ibidem, n. 84.
[3] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 46.
La formazione giovanile a una cultura religiosa avviene anche attraverso l’azione preziosa degli insegnanti di religione. Essi sono per lo più uomini e donne di fede che si lasciano guidare da un progetto pedagogico illuminato dai valori del Vangelo, trovando in essi il nutrimento del loro agire educativo. «Questa nota specifica e qualificante del docente di religione caratterizza la sua stessa professionalità e comunque ne costituisce un elemento insostituibile»[1]. L’insegnamento della religione ha un ruolo molto importante nella formazione dei giovani. A tal proposito sono particolarmente significative alcune espressioni che Papa Francesco ha pronunciato in occasione dell’incontro sul Patto Educativo Globale: «Da sempre le religioni hanno avuto uno stretto rapporto con l’educazione… [Essa] ci impegna a non usare mai il nome di Dio per giustificare la violenza e l’odio verso altre tradizioni religiose, a condannare ogni forma di fanatismo e di fondamentalismo e a difendere il diritto di ciascuno a scegliere e agire secondo la propria coscienza. Se nel passato, anche in nome della religione, si sono discriminate le minoranze etniche, culturali, politiche e di altro tipo, oggi noi vogliamo essere difensori dell’identità e dignità di ogni persona»[2].
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Nota pastorale sull’insegnamento della religione cattolica, n. 18.
[2] Cfr. Francesco, Messaggio all’AMCI in occasione del Congresso nazionale (ottobre 2021).
La scuola è e rimane un luogo di incontro per eccellenza con i giovani e una sede idonea per la loro formazione. La pastorale scolastica, volendo far cresce nei giovani la ricerca delle ragioni per vivere e sperare e, insieme, favorire tra loro un annuncio e una catechesi specifiche in vista di un’integrale esperienza di vita, si pone in continuità con i percorsi già avviati negli anni passati (Ritiri spirituali per gli studenti, Giornate dello studente) pensando altre possibili vie di coinvolgimento dei giovani che tengano conto del contesto attuale. Il consolidamento della collaborazione tra i diversi Uffici pastorali (scolastica, per le comunicazioni sociali, familiare e giovanile) permetterà la presenza della nostra Chiesa locale nei diversi Areopaghi culturali e formativi e potrà raggiungere altri luoghi frequentati dai giovani.
«L’università svolge un ruolo determinante per la formazione delle nuove generazioni, garantendo una preparazione che consente di orientarsi nella complessità culturale odierna. Il mondo universitario ha il compito di promuovere competenze che abbraccino l’ampiezza dei problemi, attente alle esigenze di senso e alle implicazioni etiche degli studi e delle ricerche nei diversi campi del sapere»[1].
Il Sinodo si interroga anche sulla formazione dei giovani e delle giovani che frequentano l’università. Nella nostra Diocesi è da qualche anno presente la Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI), associazione attiva nella formazione delle coscienze degli studenti alla politica e alla responsabilità civile ed ecclesiale, affinché questa fase della loro esistenza sia vissuta in prospettiva cristiana. Ci si adoperi a far conoscere di più tale percorso formativo perché possa diventare nella nostra Chiesa lievito che fa fermentare la pasta attraverso la formazione dei giovani nel loro percorso culturale, universitario e professionale. In tal modo essi imparano a saper coniugare con convinzione ragione e fede.
[1] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 48.
A partire dal Sinodo Diocesano si moltiplichino le occasioni per riflettere, approfondire e rilanciare l’impegno su temi, strumenti e canali della comunicazione di ogni tipo, tradizionale e digitale, ad intra e ad extra, non solo come mero strumento di propagazione delle informazioni o nuovi linguaggi ma come un grande processo culturale. Non abbia timore la nostra Chiesa locale di segnare il passo e non inseguire, di camminare insieme a chi è più lento e di non cedere alla comune tentazione di arrivare primi. Sia il Sinodo un propulsore di consapevolezza: siamo tutti comunicatori in ogni momento del nostro vivere, tutti impegnati non semplicemente a carambolare informazioni ma a renderle di valore, attraverso le nostre esperienze di cristiani con empatia, disponibilità all’ascolto e instancabile fede.
La nuova cultura mediale esercita un’influenza sempre più diretta sulle persone e sulle loro relazioni. La straordinaria mole di informazioni e di possibilità d’intrattenimento mediatico può accompagnarsi, paradossalmente, a forme di frantumazione personale e sociale, a una crisi delle forme tradizionali di prossimità, a uno stato confusionale dovuto a saturazione mediatica. I media, ampliando a dismisura le capacità comunicative e relazionali, possono favorire un nuovo umanesimo o generare una drammatica alienazione dell’uomo da sé e dagli altri. I media possono essere artefici di una nuova prossimità, frutto del confronto e dell’incontro, occasione di continuo svelamento di sé all’altro, assunzione di una responsabilità verso gli altri. Tuttavia, più siamo prossimi, più possiamo smarrire il senso della distanza. Se tutto diviene accessibile, se ogni incontro si rivela possibile, il rischio altrettanto facile è di banalizzare e strumentalizzare incontri ed esperienze. Concentrando tutto nel qui e ora, il rischio è di perdere la capacità del confronto e dello stupore di fronte alle cose. Il mondo muta in “un luogo senza luogo” e “un tempo senza tempo” ed è minacciato da un sincretismo culturale e religioso in cui anche la trasmissione del Vangelo diventa più difficile. Al di là delle implicazioni di tipo sociologico e psicologico, almeno tre sono gli aspetti sui quali vigilare in vista della missione ecclesiale nel territorio diocesano:
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicazione e Missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, nn. 20-23.
La Chiesa non è soltanto un luogo di trasmissione della fede, cioè non è una semplice “emittente”. Custode fedele della Parola, la Chiesa è innanzitutto chiamata a porsi in “religioso ascolto” di essa, riconoscendola come dono da condividere con tutti gli uomini. Nell’ascolto della Parola e nell’apertura orante del cuore si perpetua il prodigio della Pentecoste (cfr. At 2,1-13) che permette alla Chiesa di assumere, sotto la spinta e la guida dello Spirito Santo, i linguaggi e gli atteggiamenti maggiormente idonei, in ogni tempo e situazione, per far arrivare l’annuncio del Vangelo a tutti[1].
Non c’è comunicazione senza comunione. Da questo cammino condiviso della nostra Chiesa locale deve maturare una rinnovata consapevolezza che una comunicazione svuotata di comunione e fraternità diventa sterile promozione, arida pratica di moltiplicazione della visibilità. Sono le testimonianze coerenti di Vescovi, presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, laici, educatori, catechisti, in comunione fraterna e autentica, a generare una comunicazione efficace, credibile, feconda.
Si attivino in Diocesi processi di dialogo in grado di superare ogni attrito che, invece di favorire unitarietà e promuovere riconciliazione per renderla ancora più credibile quando la si predica agli altri, rischia di compromettere la capacità di trasmissione della Parola, la missione evangelizzatrice, la gioia di condividere la fede con pienezza e non con doppiezza.
Tutti nella comunità ecclesiale, sia tramite rapporti personali sia attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione sociale, sono chiamati a esercitare il nativo diritto di esprimere liberamente le proprie idee con atteggiamento costruttivo, con franchezza, ma anche con l’avvertenza di evitare atteggiamenti e interventi pubblici che possano nuocere alla verità, alla comunione, e all’unità del corpo ecclesiale. Non è raro infatti che interventi di singoli o di gruppi siano usati in modo strumentale e amplificati dai media per creare divisioni e pretestuose contrapposizioni nella comunità cristiana.
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicazione e Missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, nn. 39-42.
L’educazione alla comunicazione e ai media non può esaurirsi nella conoscenza delle tecniche, ma deve saper leggere in profondità l’attualità sociale e culturale. Questa consapevolezza va messa al centro dei percorsi di formazione che vanno attivati nelle famiglie, nella scuola, nella Parrocchia e nelle aggregazioni laicali. Di fronte a un simile compito formativo potremmo forse sentirci impreparati. L’impegno richiesto è senza dubbio notevole, ma è anche improrogabile. Esso va oltre la contingenza del momento per assumere la fisionomia del profilo permanente per l’identità e la missione della Chiesa. La conversione pastorale e culturale, inoltre, non riguarda solo i singoli membri della Chiesa, ma investe la comunità nel suo insieme. Nell’era dei media anche la Parrocchia è costretta a cambiare la sua fisionomia. Certamente continua a essere la comunità dei rapporti personali, della carità tangibile, degli incontri formativi diretti e dei sacramenti; ma s’avvia a comunicare anche con il sito internet, la posta elettronica, il notiziario, la biblioteca multimediale.
La Parrocchia proponga incontri per un discernimento critico dei media e dei messaggi. L’azione pastorale, infatti, deve adeguarsi, senza indugi, alle esigenze dettate dalla nuova cultura mediatica. L’adeguamento investe tutte le dimensioni della vita ecclesiale senza limitarsi a un semplice aggiornamento degli strumenti. Tale “atto di conversione” sarà in primo luogo spirituale e riguarderà il modo di percepire ed esprimere la fede: tecniche comunicative da apprendere e praticare, dunque, ma soprattutto intelligenza e cuore radicati nella contemplazione del volto del Padre e del suo Figlio, il Verbo fatto carne[1].
I media e le opportunità di comunicazione diventino nuove sfide culturali e pastorali, risorse per una formazione in grado di arricchire conoscenze e sensibilità dei fedeli. Ci si attivi per creare o ripensare spazi di comunità, oratori multimediali e ogni spazio prezioso per la crescita spirituale e culturale. Ci si adoperi per adottare in Parrocchia nuovi strumenti e canali di comunicazione. Nel caso di piccole comunità parrocchiali si favorisca la creazione di strumenti di comunicazione condivisa. Si valuti, dove possibile, il coinvolgimento degli animatori della cultura e della comunicazione, figure da individuare e formare in modo specifico il cui servizio sia a beneficio di più comunità parrocchiali della Diocesi.
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicazione e Missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, nn. 51-55.
Saper leggere e servirsi in modo adeguato degli strumenti della comunicazione è il minimo oggi richiesto a un buon catechista. È infatti impensabile fare catechesi rinunciando a un discernimento attento del contesto culturale. Come faceva Gesù, il catechista comunicatore deve poi saper modulare simboli, parabole, racconti, testimonianze che parlino di una fede libera e responsabile. Al comunicatore della fede è chiesto di sapere usare tutti i registri della comunicazione: il linguaggio verbale e non verbale, le immagini e i suoni, attingendo dai media esempio ed evocazioni, proponendo nuove metafore della fede, suscitando interessi ed emozioni, animando esperienze di fede nel gruppo della catechesi[1].
«Nella Chiesa si è spesso abituati ad una comunicazione uni-direzionale: si predica, si insegna e si presentano sintesi dogmatiche. Inoltre, il solo testo scritto fatica a parlare ai più giovani, abituati a un linguaggio consistente nella convergenza di parola scritta, suono e immagini. Le forme della comunicazione digitale offrono invece maggiori possibilità, in quanto sono aperte all’interazione. Perciò è necessario, oltre alla conoscenza tecnologica, imparare modalità comunicative efficaci, insieme a garantire una presenza nella rete che testimoni i valori evangelici»[2].
La nostra Chiesa, in un cammino condiviso con le Diocesi di tutto il mondo, «è chiamata a riflettere sulla peculiare modalità di ricerca di fede dei giovani digitali e, di conseguenza, aggiornare le proprie modalità di annuncio del Vangelo al linguaggio delle nuove generazioni, invitandole a creare un nuovo senso di appartenenza comunitario, che includa e non si esaurisca in quello che esse sperimentano in rete. La sfida pastorale è quella di accompagnare il giovane alla ricerca dell’autonomia, che rimanda alla scoperta della libertà interiore e della chiamata di Dio, che lo differenzia dal gregge social a cui appartiene»[3].
La catechesi è chiamata a trovare modi adeguati per affrontare le grandi questioni circa il senso della vita, la corporeità, l’affettività, l’identità di genere, la giustizia e la pace, che nell’era digitale sono interpretate in maniera differente.
[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles laici, n. 44.
[2] Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, n. 214.
[3] Ibidem, n. 370.
Per lo sviluppo e l’attuazione di una pastorale organica delle comunicazioni sociali il ruolo della Parrocchia è primario e decisivo. In essa concretamente si percepisce l’influsso della cultura mediale ed è possibile un primo, basilare e innovativo approccio pastorale a tale cultura. Tutta la vita della comunità parrocchiale dovrebbe essere ripensata in un’ottica più organica e integrata, tenendo conto della cultura determinata dai media: dai linguaggi della catechesi alle celebrazioni liturgiche, dal modo in cui la comunità parrocchiale viene informata delle attività alla gestione della bacheca, dalla disposizione dei manifesti alla realizzazione del bollettino parrocchiale, dal ricorso agli strumenti audiovisivi al rapporto con i media laici ed ecclesiali, nazionali e locali, fino all’uso delle nuove tecnologie[1].
Venga rivolta maggiore attenzione alle realtà (associazioni, formatori, esperti) che operano nel settore della “media education”, favorendo collegamento e scambio tra i vari animatori e operatori della comunicazione e della cultura. La comunicazione delle Parrocchie sia creativa, coraggiosa ma sempre contestuale al sacro e lontana da mode e tendenze che ammiccano ad eventi a carattere commerciale, consumistico, solo estetico. La fede non è “audience” e la comunicazione è sempre comunione e non competizione, anche in ambito parrocchiale.
I media possono contribuire ad allargare, arricchire e diffondere il dialogo tra i fedeli e pastori, ma è fondamentale considerare anche le possibili distorsioni o manipolazioni che ne possono derivare. Occorre, pertanto, che tutti siano educati a un uso dei media efficace ma, nello stesso tempo, discreto e pertinente.
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicazione e Missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, nn. 106-110.
«Una pastorale nel mondo digitale è chiamata a tener conto anche di coloro che non credono, sono caduti nello sconforto e coltivano nel cuore il desiderio di assoluto e di verità non effimere, dato che i nuovi media permettono di entrare in contatto con seguaci di tutte le religioni, con non credenti e persone di tutte le culture»[1].
La comunità di riferimento dei Parroci non sia più formata soltanto dai gruppi esistenti in Parrocchia e che la frequentano. Internet amplia le reti di relazione e trasforma quelle esistenti, innova la Parrocchia e il modo in cui i sacerdoti svolgono il loro ministero. Il legame che unisce sacerdoti e fedeli (o potenziali) nella rete non è più soltanto di tipo geografico, come è stato storicamente per il Parroco e la Parrocchia. E non è più necessariamente soltanto “face to face”. I rapporti che si instaurano possono essere basati su affinità culturali ed esperienziali. I vicini sono i parrocchiani che frequentano la Chiesa ma anche gli “ex parrocchiani” che si sono trasferiti altrove per lavoro e per studio e, potenzialmente, anche tutti i fedeli di altre Parrocchie. Sono anche coloro che non frequentano la Chiesa e non partecipano alle attività parrocchiali pur vivendo all’interno dei confini territoriali della Parrocchia, coloro che non credono o che professano altri credo e che possono entrare in contatto con i presbiteri grazie alla rete. Nell’era delle reti digitali, gli interlocutori dei parroci sono i “digital neighbours” (“i vicini digitali”). Con la diffusione di internet – e in parte era già accaduto con i media elettronici – cambia il concetto di vicinanza.
La Parrocchia è stata tradizionalmente concepita come luogo dell’irradiazione della fede in un contesto cristiano, ma sappiamo che oggi il contesto religioso in cui opera è profondamente mutato rispetto al passato. Sul versante dell’innovazione, si colloca l’uso di internet per rispondere ai cambiamenti del panorama socio-religioso di riferimento. Con internet i presbiteri iniziano a prestare attenzione non solo a coloro che vanno alla Messa domenicale, ma anche a quelli che incontrano nei social network e nelle chat, che diventano nuovi ambienti in cui anche la fede può essere professata. Ne consegue che cambiano le strategie comunicative adottate dai sacerdoti nella pastorale[2].
L’invito ad un utilizzo della rete, di internet e degli strumenti digitali, al fine di comunicare, non deve essere una “corsa al recupero” di competenze e capacità tecniche ma una necessaria formazione, una preziosa opportunità per evangelizzare e non solo per mantenere contatti e relazioni con i fedeli che già frequentano attivamente le attività e la vita comunitaria in Parrocchia. Anche la nostra Diocesi contribuisca ad uno sviluppo di una Chiesa mediale, ricordandoci tutti che non siamo solo davanti a meri strumenti tecnologici o vie digitali, ma davanti a riflessi dell’umano.
[1] Francesco, Discorso al IV Congresso Nazionale della Pastorale delle comunicazioni sociali del Brasile (Luglio 2014).
[2] Rita Marchetti, La Chiesa e Internet. La sfida dei media digitali, 2015, p. 118.
Gli anni di isolamento sociale che abbiamo vissuto con i lockdown legati alla pandemia del Coronavirus e le tante restrizioni hanno coinvolto anche le attività pastorali e catechetiche della Chiesa, accelerando la diffusione di strumenti web e canali social nelle Parrocchie della nostra Diocesi come in quelle di ogni parte del mondo. La proibizione delle celebrazioni ha in qualche modo costretto la Chiesa ad adeguarsi, affinché le comunità non rimanessero isolate. Questo scenario ha stimolato e sviluppato la creatività e l’uso dei social, anche da parte dei meno giovani. Ciò comporta una svolta positiva sotto tanti aspetti:
La nostra Chiesa locale deve continuare a utilizzare queste nuove forme di comunicazione con stile cristiano, vivacità e creatività, integrandole nella pratica pastorale in modo oculato, e ritenendole già un prezioso patrimonio per tutta la comunità diocesana.
Il modo di comunicare vada verso la comunione e mai verso la divisione, cioè in modo diametralmente opposto rispetto a tutte le accuse che vengono rivolte normalmente alle piattaforme social. La nostra comunità di “fedeli comunicanti” si adoperi sempre per un uso proficuo e positivo delle risorse del web, puntando a diventare esempio virtuoso e replicabile.
Nello stile cristiano – si spera presto in condizioni non alterate da scenari pandemici – rientra il sapersi regolare, ossia la capacità di darsi una disciplina nell’uso dei mezzi di comunicazione. Si favorisca ogni esperienza di “dieta digitale” in modo da riallenare giovani e adulti alla moderazione. Questo problema lo conoscono bene le famiglie e, in particolare, i genitori: l’utilizzo eccessivo, quasi maniacale, degli smartphone. Sia concertata e programmata da tutti gli Uffici diocesani competenti un piano annuale di formazione su questi temi, che miri al coinvolgimento di tutti: giovani, adulti, famiglie, sacerdoti, insegnanti di religione, catechisti, seminaristi, educatori, operatori della comunicazione, volontari.
Abbiamo vissuto il periodo complicato della pandemia, non ancora completamente superato, che però ha creato condizioni inaspettate per uno sviluppo rapido e positivo dei nuovi media nella Chiesa. Questo balzo in avanti è un’opportunità da non perdere, è uno sviluppo che non deve compiersi invano, a condizione che venga affermato e affinato uno stile di comunicare proprio della Chiesa, e della nostra Diocesi in cammino, che è quello della comunione, di costruire la comunità, di aiutare e responsabilizzare le persone.
«Col nome di laici si intende l’insieme dei cristiani, cioè i fedeli, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano»[1]. «Essi esercitano il loro l’apostolato evangelizzando e santificando gli uomini, e animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale»[2]. Compito dei laici è anche quello di crescere nella fede e santificare se stessi.
Questo Sinodo aiuti i laici della nostra Diocesi a prendere coscienza della loro dignità di cristiani ricevuta con il Santo Battesimo e che va necessariamente alimentata con la Parola e l’Eucarestia. Il cammino di fede proposto a tutti i fedeli deve condurre alla piena comprensione e maturazione della propria partecipazione alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo iniziata con il Battesimo per «essere il fermento di Dio in mezzo all’umanità annunciando e portando la salvezza di Dio in questo nostro mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere risposte che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino»[3].
[1] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 31.
[2] Concilio Vaticano II, Decreto sull’Apostolato dei Laici Apostolicam Actuositatem, n. 2.
[3] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 114.
«La fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro unione vitale con Cristo, secondo il detto del Signore: “Chi rimane in me ed io in lui, questi produce molto frutto, perché senza di me non potete far niente” (Gv15,5). Questa vita d’intimità con Cristo viene alimentata nella Chiesa con gli aiuti spirituali comuni a tutti i fedeli, richiede un continuo esercizio della fede, della speranza e della carità»[1]. «Tutti nella Chiesa, proprio perché ne sono membri, ricevono e quindi condividono la comune vocazione alla santità»[2].
Ogni fedele è chiamato a curare la propria spiritualità facendosi accompagnare da un padre o da una madre spirituale, liberamente scelti, ai quali aprire il proprio animo, lasciandosi accompagnare e correggere per raggiungere la santità di vita; per questo si chiede ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, a laici e laiche ben formati, che abbiano compiuto un cammino di maturazione spirituale e umana e che vivano con impegno e coerenza la propria scelta vocazionale, la disponibilità alla cura delle anime che a loro si affidano, perché la «paternità spirituale: è dare vita»[3].
[1] Concilio Vaticano II, Decreto sull’Apostolato dei Laici Apostolicam Actuositatem, n. 4.
[2] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles Laici, n. 16.
[3] Francesco, Omelia a Casa Santa Marta, 6 giugno 2013.
«La vocazione dei fedeli laici alla santità comporta che la vita secondo lo Spirito si esprima in modo peculiare nel loro inserimento nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrene»[1]. «Sono chiamati a contribuire come membra vive, con tutte le forze ricevute dalla bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, alla santificazione permanente della Chiesa. L’apostolato dei laici è quindi partecipazione alla missione salvifica stessa della Chiesa»[2]. «Molte sono le occasioni che si presentano ai laici per esercitare l’apostolato dell’evangelizzazione e della santificazione. La stessa testimonianza della vita cristiana e le opere buone compiute con spirito soprannaturale hanno la forza di attirare gli uomini alla fede e a Dio […]. Tuttavia, tale apostolato non consiste soltanto nella testimonianza della vita; il vero apostolo cerca le occasioni per annunziare Cristo con la parola sia ai non credenti per condurli alla fede, sia ai fedeli per istruirli, confermarli ed indurli ad una vita più fervente; “poiché l’amore di Cristo ci sospinge” (2Cor5,14)»[3].
La vigna del Signore, per ogni laico, è data da quei luoghi dove vive la propria quotidianità. Luoghi privilegiati sono certamente:
Si ricordi sempre che i laici «sono chiamati ad animare ogni ambiente, ogni attività, ogni relazione umana secondo lo spirito del Vangelo (cfr. LG, 31), portando la luce, la speranza, la carità ricevuta da Cristo in quei luoghi che, altrimenti, resterebbero estranei all’azione di Dio e abbandonati alla miseria della condizione umana (cfr. GS, 37). Nessuno meglio di loro può svolgere il compito essenziale di “iscrivere la legge divina nella vita della città terrena” (cfr. GS, 43)»[4].
[1] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles Laici, n. 17.
[2] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 33.
[3] Concilio Vaticano II, Decreto sull’Apostolato dei Laici Apostolicam Actuositatem, n. 6.
[4] Francesco, Messaggio in occasione del 50° anniversario del decreto Apostolicam Actuositatem, 22 ottobre 2015.
«Sempre più urgente si rivela oggi la formazione dottrinale dei fedeli laici, non solo per il naturale dinamismo di approfondimento della loro fede, ma anche per l’esigenza di “rendere ragione della speranza” che è in loro di fronte al mondo e ai suoi gravi e complessi problemi. Si rendono così assolutamente necessarie una sistematica azione di catechesi, da graduarsi in rapporto all’età e alle diverse situazioni di vita, e una più decisa promozione cristiana della cultura, come risposta agli eterni interrogativi che agitano l’uomo e la società d’oggi»[1].
È urgente che la Diocesi punti alla formazione permanente ed integrale dei laici. In particolare vi sia una formazione e un impegno nel campo sociale e politico, che parta dai fondamenti della dottrina sociale della Chiesa, per formare una coscienza retta e matura sull’essere nel mondo testimoni e profeti a servizio dell’uomo. Anche il campo della cultura deve trovare ampio spazio nella formazione permanente del nostro laicato. L’avanzare delle conoscenze e le nuove scoperte ci devono trovare pronti e preparati a saper dare delle risposte chiare e documentate perché «la fede suppone la ragione e la perfeziona, e la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali»[2]. Nel contesto della formazione integrale ed unitaria dei fedeli laici non si trascuri l’importanza della formazione nel mondo del lavoro perché, accanto alle proprie competenze professionali, si tenga conto «del senso civico e di quelle virtù che riguardano i rapporti sociali, cioè la probità, lo spirito di giustizia, la sincerità, la cortesia, la fortezza d’animo, senza le quali non ci può essere neanche vera vita cristiana»[3].
[1] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles Laici, n. 60.
[2] Benedetto XVI, Angelus, 28 gennaio 2007.
[3] Concilio Vaticano II, Decreto sull’Apostolato dei Laici Apostolicam Actuositatem, n. 4.
«L’apostolato associato corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si mostra come segno della comunione e dell’unità della Chiesa in Cristo che disse: “Dove sono due o tre riuniti in mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt18,20). […] Le associazioni non sono fine a se stesse, ma devono servire a compiere la missione della Chiesa nei riguardi del mondo […]. Occorre stimare nel modo giusto tutte le associazioni di apostolato»[1]. Esse, manifestando la perenne giovinezza dello Spirito, aiutano la Chiesa a scoprire la sua vera identità di comunità che cerca la comunione e l’intimità con il Signore Gesù.
La Consulta delle Aggregazioni laicali, già presente in Diocesi, è espressione di quella fraternità che come cristiani, chiamati nei diversi cammini di santità, è già vissuta nel nostro territorio. Ogni associazione, gruppo e movimento in virtù della propria vocazione si impegni ad aprirsi maggiormente all’altro, sapendo cogliere quei doni e carismi, di cui ogni aggregazione è portatrice, per rendere più ricco e fecondo l’apostolato nella nostra Chiesa. Inoltre, non sia autoreferenziale ma cammini integrato nella pastorale parrocchiale e diocesana. La “Casa del laicato” diventi “focolare” dove ogni realtà associativa è libera di esprimere la propria spiritualità e specificità offrendo il proprio contributo originale alla pastorale diocesana. La Consulta Diocesana delle Aggregazioni Laicali sia, quindi, luogo di discernimento e di attenzione alle esigenze dell’uomo di oggi e alle problematiche della nostra Piana, «per essere un chiaro segno della vitalità della Chiesa: una forza missionaria e una presenza di profezia che ci fa ben sperare per il futuro, che va preparato qui e ora»[2].
[1] Concilio Vaticano II, Decreto sull’Apostolato dei Laici Apostolicam Actuositatem, n. 18-19. 21.
[2] Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità organizzato dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, 16 settembre 2021.
Il Sinodo rivolge la sua particolare attenzione alle famiglie del nostro territorio diocesano, alle donne e agli uomini che nel silenzio faticano e gioiscono per questa grande vocazione vissuta quotidianamente nel donarsi e prendersi cura l’uno dell’altra nella vita coniugale e nel dono dei figli, tenendo come punto saldo la bellezza del Sacramento del Matrimonio nella consapevolezza che la famiglia è sostenuta dall’Amore di Cristo ed è via di santità.
Analogo interesse e vicinanza devono essere dedicati a tutte le famiglie che vivono situazioni di disagio, povertà, disabilità, dipendenze, violenze e a quelle che non ci sono più perché smembrate da difficoltà e dissidi interni, da incomprensioni, litigi o anche semplicemente finite con la complicità di un mondo e di una cultura che non crede più nel Matrimonio e insidia il senso e il valore dell’autentico amore sponsale così come ce lo ha donato Dio.
Ancora di più il Sinodo si sente vicino ai figli, al loro desiderio di futuro; a coloro che sono spesso “vittime” di separazioni e divorzi, senza dimenticare chi subisce o ha dovuto subire violenze e soprusi all’interno della famiglia.
Un’attenzione, infine, si vuole riservare ai nonni, che sono ancora un punto di riferimento per le nostre famiglie, custodi della memoria e porto sicuro nelle avversità e che meritano da parte della famiglia attenzione e cura.
Per tutte queste persone la Chiesa diocesana sulle orme di Cristo – il vero e autentico Samaritano – sente il dovere e il compito, affidatogli dallo Spirito in questo nostro tempo, di farsi prossima, custodendo e curando i componenti della famiglia soprattutto quando questi soffrono o sono in situazioni di difficoltà.
L’esortazione apostolica Amoris laetitia, presa come riferimento nei lavori sinodali, ci interpella profondamente a riconsiderare l’attenzione alle famiglie del territorio diocesano, chiedendo un nuovo e radicale impegno e una più aderente visione della pastorale familiare che deve passare anche attraverso queste scelte precise:
La Chiesa locale volga uno sguardo di lode a Dio per quelle famiglie che vivono cristianamente il loro percorso e la loro vocazione intesa come dono prezioso, che va accolto con particolare attenzione, curato e custodito da mille insidie culturali, sociali ed economiche.
Ci sono famiglie cristiane della nostra terra che ancora oggi riescono a custodire i preziosi valori lasciati dalla nostra tradizione: sono e devono diventare esempi e testimonianze viventi della bellezza della vocazione al matrimonio e alla famiglia, risplendendo come esempi di vita e di santità nel quotidiano.
La nostra Chiesa innanzitutto vuole e deve prendersi cura di queste famiglie con la vicinanza, l’amore fraterno, la presenza e un valido sostegno spirituale, affinché diventino modello di evangelizzazione e di carità per le altre famiglie.
A tutte le famiglie, ma a quelle cristiane in particolare, chiediamo anche che siano culla di vocazioni. Educhino i propri figli ad essere docili e pronti ad accogliere il progetto di Dio nella loro vita, aperti ad ogni tipo di vocazione e missione, sia essa professionale, matrimoniale ma anche sacerdotale e religiosa.
Oggi più che mai la famiglia appare fragile e in preda a mille problemi che rendono difficile nella coppia la sua propria vocazione al dono. In particolare si evidenziano alcune problematiche:
Per questi motivi è necessario:
È in atto una spinta culturale che ha l’obiettivo di uccidere l’amore perché taglia tutti i legami essenziali tra le persone sviluppando diverse forme di individualismo.
È migliorata la libertà individuale del singolo nella coppia anche se ancora permangono disparità nei confronti della donna, che continua ad avere maggiori oneri e responsabilità nella gestione organizzativa della vita di coppia, della famiglia e nell’educazione dei figli.
Dinnanzi a questa visione precaria e individualista della famiglia e del Matrimonio, ci si rende conto dell’importanza di una presenza ecclesiale attiva, propositiva e autorevole, che sappia instaurare un dialogo efficace e coinvolgente. Troppo spesso ci “chiudiamo” a custodire il bene della famiglia e del Matrimonio senza pensare che sia un dono da condividere e “trafficare”.
In questa direzione è importante una maggiore presa di coscienza e una presenza attiva per essere autenticamente incisivi e presenti nel nostro contesto socio-culturale.
È un’esigenza essenziale del nostro essere Chiesa il bisogno di inserirci in modo attivo nella cultura del territorio, utilizzando tutti gli strumenti adeguati che offre la società, soprattutto ritrovando, sull’esempio di Papa Francesco, un nuovo linguaggio che non esprime solo giudizi, ma che sappia incontrare ed entrare nel cuore delle persone.
La presenza ambigua della subcultura mafiosa investe inevitabilmente anche la realtà familiare. Per costruire un apparente benessere o più semplicemente per garantire un’appartenenza, i valori umani e cristiani vengono sostituiti da disvalori mafiosi, che trovano facile diffusione soprattutto, ma non solo, nelle famiglie che soffrono la precarietà economica e a volte un certo abbandono da parte di tutta la società.
Tra le famiglie che hanno trovato in questa connotazione il loro carattere distintivo possono comunque nascere desideri di conversione, di cambiamento, verso i quali la Chiesa locale non può rimanere indifferente, ma deve sentire il bisogno di una presenza attiva e vigile
È necessario sviluppare, quindi, una specifica pastorale che possa in modo attivo contrastare, attraverso la forza del Vangelo e “le armi” della cultura, la mentalità della ‘ndrangheta con un atteggiamento di fermezza e coraggio. Questa attenzione deve rivolgersi soprattutto alle giovani generazioni facendo riferimento sempre alla novità del Vangelo.
Nel territorio della nostra Diocesi da decenni esiste una forte presenza di immigrati stagionali e stabili provenienti, in prevalenza, dall’Africa e dall’Est europeo. Una parte di essi è costituita da interi nuclei familiari con presenza di minori.
La comunità ecclesiale, soprattutto attraverso la Caritas, alcune Congregazioni religiose e Associazioni, si è attivata per dare aiuto e rispondere ad alcune emergenze, ma è solo una goccia nell’oceano dei bisogni, che non supera quello stato di degrado al limite dell’umano in cui versano tanti di questi nostri fratelli.
È necessario che la nostra Chiesa, attraverso un coinvolgimento comunitario e in dialogo con le Istituzioni pubbliche, faccia ogni sforzo per coniugare fattivamente i quattro verbi indicati dall’enciclica Fratelli tutti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
Un’attenzione particolare va riservata alle famiglie immigrate con presenza di minori affinché abbiano situazioni abitative dignitose, siano messe in grado di usufruire dei loro diritti (es. un contratto di fitto registrato, un contratto di lavoro…), scoprano i loro doveri e obblighi nel Paese ospite, possano usufruire di una rete solidale e di accompagnamento perché i minori vivano in un contesto di “sicurezza”, siano scolarizzati, abbiano pari opportunità.
Siano attivati processi di integrazione, attraverso progetti e iniziative, costruendo una rete tra Istituzioni ecclesiali e civili. Le famiglie possano, in tal modo, sentirsi rispettate nella loro diversità culturale e religiosa per sviluppare progressivamente un senso di appartenenza alla comunità che le accoglie.
Dal dinamismo culturale del nostro territorio nascono anche Matrimoni misti tra appartenenti a diverse religioni e confessioni: la richiesta maturata e consapevole del Sacramento del Matrimonio va accolta e accompagnata attraverso un percorso di formazione condiviso per sottolineare ciò che unisce e non ciò che divide le diverse fedi. I valori comuni, i riti e le tradizioni religiose specifiche sono occasioni per stabilire relazioni di comprensione e collaborazione anche nell’educazione dei figli.
È necessario offrire un servizio alle giovani coppie, capace di creare un clima di amicizia umana e spirituale tra le persone e il sacerdote e tra le persone e la propria comunità parrocchiale, aiutandole a riscoprire anche il senso dell’appartenenza alla Chiesa, intesa come grande famiglia di famiglie. Il Sinodo esorta a progettare e realizzare cammini parrocchiali, interparrocchiali o diocesani per fidanzati finalizzati all’accoglienza, all’accompagnamento delle coppie, alla loro formazione permanente e alla maturazione dei futuri coniugi per una scelta consapevole e serena della vita coniugale.
È importante che il cammino prosegua anche dopo il Matrimonio per costruire valori umani, che sono alla base della vita insieme, e superare gli ostacoli in modo positivo, sicuri che «il Signore non permette mai un problema senza darci anche l’aiuto necessario per affrontarlo»[1], aiutando le coppie a maturare una fede più viva e approfondire insieme la Parola di Dio in un dialogo costruttivo.
Il percorso per le coppie ponga attenzione a diversi aspetti: quello spirituale, quello etico, quello psicologico e quello sociale con l’approfondimento di tematiche familiari.
Bisogna educare gli sposi e le giovani famiglie al sincero dono di sé all’altro e agli altri, all’amore per la vita, alla carità e alla preghiera per essere capaci di crescere i propri figli nella verità e sulla via della santità, seguendo il Signore Gesù e la Sua Parola.
Saranno infatti i figli del domani ma le famiglie di oggi, che chiamate ad abitare la nostra Diocesi, in modo sano e santo, dovranno creare un futuro migliore!
[1] Francesco, Udienza Generale, mercoledì 26 gennaio 2022.
Gli adolescenti e i giovani oggi appaiono come l’anello debole nel percorso di crescita per la vocazione alla famiglia. Sarebbe utile che si creassero a livello diocesano e parrocchiale dei corsi finalizzati ad aiutare i catechisti, gli educatori e tutti coloro che si relazionano con questo mondo, fornendo degli strumenti idonei per aiutare i ragazzi nell’educazione all’amore. Gli sposi, poi, devono essere sostenuti nella loro opera educativa, poiché la vocazione dei genitori a educare è benedetta da Dio. Occorre, perciò, aiutarli a trasformare le loro apprensioni in preghiera, ascolto, meditazione, confronto pacato perché educare è una grazia del Signore.
Oggi più che mai l’intero tempo del fidanzamento è una vera propria occasione di evangelizzazione degli adulti e, spesso, dei cosiddetti “lontani”. Sono, infatti, numerosi i giovani per i quali l’approssimarsi delle nozze costituisce l’occasione per incontrare di nuovo una realtà da molto tempo relegata ai margini della loro vita; essi, peraltro, si trovano in un momento particolare, caratterizzato spesso anche dalla disponibilità a rivedere e a cambiare l’orientamento dell’esistenza.
La possibilità di incontrare nuove coppie deve trasformarsi in occasione di incontro, evangelizzazione e maturazione nella fede, nuova e rinnovata relazione con i presbiteri e con la comunità ecclesiale attraverso un cammino integrato di formazione umana e cristiana. Le coppie si rendono così consapevoli del dono sacramentale che ricevono – celebrato invece spesso solo per convenzione sociale – della comunità cristiana che li accoglie e li ama, dell’importanza del loro inserimento nella Chiesa e della loro testimonianza e missione in essa.
Per questo motivo i corsi di preparazione al Matrimonio non siano un semplice obbligo da soddisfare in vista della celebrazione, ma diventino sempre più un percorso e un cammino di fede e di conversione, un prezioso momento non di semplice indottrinamento, ma di catechesi autentica e di accoglienza dei fidanzati, che deve tendere a mostrare la bellezza della vocazione al Matrimonio e alla famiglia. Scopo della preparazione particolare e immediata è, infatti, aiutare i fidanzati a realizzare un inserimento progressivo nel mistero di Cristo nella Chiesa e con la Chiesa.
Per questi motivi è importante che, a livello cittadino e interparrocchiale, si sappia progettare un itinerario e un percorso che, partendo dall’età giovanile, possa introdurre e far germogliare il gusto per la famiglia e per il Matrimonio, sostenendo i fidanzati e i futuri sposi nel maturare la propria vocazione.
In tal senso, il Matrimonio venga avvertito come una tappa fondamentale del cammino di fede della coppia, che susciti il desiderio e insieme la necessità di continuare a camminare nella fede e nella comunità ecclesiale anche dopo la celebrazione del Sacramento.
La famiglia oggi attraversa una serie di problematiche che non possono lasciare indifferenti la comunità cristiana anche perché diventano sempre di più “luogo comune” ed esperienze diffuse che richiedono una primaria attenzione per diventare non solo oggetto di “pastorale straordinaria”, ma pastorale dell’ordinarietà.
Il Matrimonio è fecondo e i figli sono “dono” divino per arricchire la vita familiare; devono essere desiderati e amati perché sono frutto dell’amore coniugale. In tal senso, è necessario sviluppare un’attenzione specifica per una spiritualità dell’accoglienza del figlio come dono.
C’è bisogno di una presenza attiva della nostra Chiesa, sul piano culturale e sociale, per evidenziare come il ricorso a metodi contraccettivi o di fecondazione artificiale pongono problematiche morali di non poco conto.
La capacità di generare, cioè di divenire una coppia feconda, è l’immagine più importante per descrivere il mistero della vita, fondamentale nella nostra visione cristiana: cioè comunione d’amore. San Giovanni Paolo II afferma che «il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia, che è l’amore» (Omelia, 28 gennaio 1979).
Quando la coppia non “procrea” si avverte la solitudine, perché è venuto meno il fine ultimo della reciprocità, che si concretizza nella donazione d’amore: la nascita di un figlio. La coppia che non può avere figli spesso sperimenta l’incapacità di essere come tutti gli altri, di non poter “dare la vita”, di generare altro da sé. La solitudine che ne deriva è grande per il senso di abbandono che si vive. La fede può indebolirsi, la solitudine incalza e non sembrano esserci “vie di uscita”. In tal senso, bisogna ravvivare la consapevolezza che la coppia, anche senza prole, è sempre e comunque famiglia ugualmente feconda se l’amore che vive non è chiuso all’interno di se stessa, ma diventa dono di apertura all’altro e di testimonianza.
L’adozione, ad esempio, riesce a rendere concreto questo tipo di amore, poiché essa non è un legame secondario, non è un ripiego ma, come afferma Papa Francesco: «Questo tipo di scelta è tra le forme più alte di amore e paternità e maternità» (Udienza Generale, 5 gennaio 2022). L’adozione permette di realizzare il sogno di tanti bambini che hanno bisogno dell’amore di una famiglia, ma anche il desiderio di tante coppie che desiderano donarsi nell’amore. Non si nasce genitori perché si mette al mondo un figlio, ma lo si diventa accudendolo con amore e prendendosi responsabilmente cura di lui. A questo proposito interessante è la Lettera Apostolica Patris corde, nella quale Papa Francesco, parlando della figura di San Giuseppe, invita a riflettere sul tema della paternità: «Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo».
Momento tragico nella coppia e nella famiglia è anche la perdita di un figlio o di una persona cara: un dramma per tutta la famiglia. La carità di Cristo e l’attenzione alla famiglia interpella il nostro essere Chiesa verso la cura di queste famiglie con una pastorale specifica e con l’aiuto di strutture e persone competenti, che possano aiutare la coppia a non sentirsi abbandonata, a trovare percorsi luminosi che diano senso a quanto accaduto, aprendo orizzonti di una vita nuova, e a riuscire a trovare le soluzioni più adeguate. Pari attenzione particolare meritano anche i figli che perdono i genitori o un genitore prematuramente.
La nascita di un figlio con disabilità genera in una coppia un senso di impotenza, che spesso finisce per sconvolgere gli equilibri e talvolta schiacciare le famiglie abbandonate a loro stesse, sia per la poca attenzione sugli altri e sia per il disinteresse da parte delle Istituzioni. Nella nostra realtà spesso non è facile accettare un figlio disabile: sono sconvolte tutte le attese genitoriali di procreare un figlio sano, sono venuti meno i desideri e le aspettative che si sono proiettati su di lui durante l’attesa. Sembra difficile divenire una famiglia come le altre, si è incapaci di accettare la fragilità. La Chiesa stia accanto alle famiglie che vivono queste problematiche e le aiuti a camminare nella fede per riconoscere e garantire il valore di ogni vita, con i suoi bisogni e le sofferenze, ma anche con i diritti e le opportunità che da essa scaturiscono per divenire migliori.
Da qui l’indicazione e l’impegno ineludibile: queste situazioni ci invitano ad essere accoglienti anche se le cure e i servizi sicuramente mettono in gioco la pazienza, la carità, la misericordia nell’accettare e condividere la vita e l’integrazione delle persone fragili.
La comunità cristiana dovrebbe supportare la famiglia nello scoprire «nuovi gesti e linguaggi, forme di comprensione e di identità, nel cammino di accoglienza e cura del mistero della fragilità» e aiutarla in quel complesso percorso che le permetterà di cogliere la fragilità «come un dono e una opportunità» (Amoris laetitia,n. 47) per crescere nell’amore e nella dedizione all’altro nel reciproco aiuto.
Nel nostro territorio sono presenti numerose famiglie che non hanno la possibilità di crescere o educare adeguatamente i propri figli e l’unica soluzione si configura come eventuale disponibilità all’affido del minore in un altro nucleo familiare.
È necessario trovare il coraggio della fede per proporre alle famiglie della nostra Diocesi il dono della disponibilità affettiva e la volontà di accompagnare per un tratto di strada, più o meno lungo, un bambino/a o un ragazzo/a, aiutandolo a sviluppare le sue potenzialità e valorizzando le sue risorse.
È necessaria una campagna di sensibilizzazione e di informazione al fine di individuare le famiglie che vorranno accogliere i minori in difficoltà, svolgendo il compito di genitori affidatari. Tale sensibilizzazione dovrebbe avvenire nelle Parrocchie con il supporto del Consultorio diocesano e dell’Ufficio per la pastorale della famiglia, organizzando, inoltre, percorsi formativi:
La formazione dovrà essere compiuta da professionalità specializzate nella cura dei minori a rischio.
L’abuso dei minori e delle persone vulnerabili, sotto le diverse forme, è una piaga molto grave della nostra società che si espande sempre di più e miete vittime innocenti. Nessun contesto, neanche quello della nostra Diocesi, si può ritenere esente, tenuto conto anche che chi si macchia di tale crimine non ha le sembianze dell’orco, come una certa pubblicistica propone, ma di una persona come tante che si presenta all’apparenza del tutto normale. Pertanto, la tutela dei minori e delle persone vulnerabili deve diventare parte integrante della pastorale ordinaria per far crescere la coscienza e la sensibilità in tutte le realtà pastorali e contribuire a diffondere una cultura della prevenzione. Molto importante è puntare sulla formazione del clero e di tutti gli operatori pastorali, che ruotano attorno agli ambienti parrocchiali, per renderli sempre più sicuri.
Gli abusi, per i due terzi, avvengono nell’ambito della famiglia e nella cosiddetta “cerchia della fiducia” per cui nella pastorale familiare un’attenzione particolare va riservata a questa problematica, accompagnando le famiglie attraverso strumenti di informazione, sensibilizzazione e formazione con l’aiuto anche di esperti. Non sono da sottovalutare, in questo ambito, i gravi rischi che provengono dal mondo del web, da cui i ragazzi di oggi sono grandemente affascinati ed attratti, anticipando sempre più l’ingresso nella realtà virtuale.
È necessario un rinnovamento comunitario, che sappia mettere al centro la cura e la protezione dei più piccoli e vulnerabili come valori supremi da tutelare.
Particolare attenzione le nostre Parrocchie devono porre alle situazioni familiari dove emergono problematiche di violenza e soprusi contro le donne.
Occorre, ove possibile, creare strutture di accoglienza per donne vittime della violenza.
È necessario insistere, nel nome di Cristo, per il superamento della cultura di sopraffazione che spesso si annida nelle famiglie del nostro territorio.
Ordine e Matrimonio sono i due sacramenti a servizio della comunione e della missione. Essi infatti «significano e attuano una nuova e particolare forma del continuo rinnovarsi dell’alleanza nella storia. L’uno e l’altro specificano la comune e fondamentale vocazione battesimale e hanno una diretta finalità di costruzione e di dilatazione del popolo di Dio. Proprio per questo vengono chiamati sacramenti sociali»[1]. Sono, dunque, due carismi complementari per edificare, con ministerialità diverse, il popolo di Dio perché «l’uno e l’altro sono segno dell’amore sponsale di Cristo per la Chiesa»[2]. Inoltre ambedue derivano dal Mistero eucaristico, a modo proprio lo “ripresentano”, ad esso si alimentano e conducono. Purtroppo oggi c’è un significativo divario fra la ricchezza e la forza profetica della dottrina della Chiesa e il vissuto pastorale lento e debole. Per quanto concerne la ministerialità propria degli sposi si registra ancora uno scarto fra ricchezza magisteriale e vissuto pastorale nelle nostre comunità ecclesiali. Si fa fatica a riconoscere la coppia e la famiglia come autentici soggetti pastorali. Coppia coniugale e famiglia vengono considerati più per quello che “fanno” o possono “fare” nella e per la Chiesa e non anzitutto per ciò che essi sono. Le cause di questa situazione sono certamente molte. Due sono particolarmente significative:
In una visione ecclesiale diventa allora fondamentale qualificare la relazione presbiteri-sposi innanzitutto approfondendo la fondazione teologica di tale relazione. Bisogna così riscoprire e approfondire la realtà sacramentale del Matrimonio: non è, infatti, solo un’istituzione naturale, ma è anche Sacramento con dignità e responsabilità nel servizio alla Chiesa pari a quelle dell’Ordine.
È necessario allora:
[1] Conferenza Episcopale Italiana, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, n. 32.
[2] Conferenza Episcopale Italiana, La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, n. 718; Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, n. 22.
[3] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, n. 43.
[4] Ibidem, n. 43.
[5] Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, n. 47.
[6] Ibidem, n. 44.
[7] Questo affermava con vigore Giovanni Paolo II già nel 1995 al Convegno ecclesiale di Palermo.
La giovinezza è un tempo privilegiato in cui si compiono scelte che determinano la propria identità: studi, professione, fede. È il momento in cui si compie il “salto di qualità”: si sperimentano alti e bassi, si scopre la propria singolarità e la propria vocazione. I giovani sono portatori di risorse e fonte di originalità. «La pastorale giovanile, così come eravamo abituati a portarla avanti, ha subito l’assalto dei cambiamenti sociali e culturali. I giovani, nelle strutture consuete, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, alle loro esigenze, alle loro problematiche e alle loro ferite. La proliferazione e la crescita di associazioni e movimenti con caratteristiche prevalentemente giovanili possono essere interpretate come un’azione dello Spirito che apre nuove strade. È necessario, tuttavia, approfondire la loro partecipazione alla pastorale d’insieme della Chiesa, come pure una maggiore comunione tra loro entro un migliore coordinamento dell’azione. Anche se non è sempre facile accostare i giovani, stiamo crescendo su due aspetti: la consapevolezza che è l’intera comunità che li evangelizza e l’urgenza che i giovani siano più protagonisti nelle proposte pastorali»[1]. Già Giovanni Paolo II, nella sua Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, ha voluto riservare un’attenzione particolare ai giovani, sottolineando che «non devono essere considerati semplicemente come l’oggetto della sollecitudine pastorale della Chiesa: sono di fatto, e devono venire incoraggiati ad esserlo, soggetti attivi, protagonisti dell’evangelizzazione e artefici del rinnovamento sociale. La giovinezza è il tempo di una scoperta particolarmente intensa del proprio “io” e del proprio “progetto di vita”, è il tempo di una crescita che deve avvenire “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52)»[2].
[1] Francesco, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus vivit, n. 202.
[2] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles laici, n. 46.
«In tutte le nostre istituzioni dobbiamo sviluppare e potenziare molto di più la nostra capacità di accoglienza cordiale, perché molti giovani che arrivano si trovano in una profonda situazione di orfanezza. E non mi riferisco a determinati conflitti familiari, ma ad un’esperienza che riguarda allo stesso modo bambini, giovani e adulti, madri, padri e figli. Per tanti orfani e orfane nostri contemporanei – forse per noi stessi – le comunità come la parrocchia e la scuola dovrebbero offrire percorsi di amore gratuito e promozione, di affermazione e crescita […] creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso»[1].
Il clero della nostra Chiesa locale abbia un atteggiamento di accoglienza, ascolto e comprensione, considerando i giovani capaci di collaborare attivamente e di spendersi per il bene della comunità. In tal senso, sia favorita la partecipazione dei giovani alla celebrazione liturgica attraverso alcuni servizi che possono essere affidati dopo accurata formazione (proclamazione delle letture, canti, altre forme di animazione). Tutto ciò contribuisce a poter camminare insieme nella verità grazie all’incontro comunitario con il Risorto, che si fa vicino a ciascuno come fece con i discepoli di Emmaus.
I sacerdoti non sentano i laici lontani dalla responsabilità formativa nei confronti dei giovani. Essi, infatti, hanno bisogno di trovare negli adulti dei testimoni autentici della fede.
[1] Francesco, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus Vivit, n. 216.
«Solo una pastorale capace di rinnovarsi a partire dalla cura delle relazioni e dalla qualità della comunità cristiana sarà significativa e attraente per i giovani. La Chiesa potrà così presentarsi a loro come una casa che accoglie, caratterizzata da un clima di famiglia fatto di fiducia e confidenza»[1]. Il valore della vicinanza e della fraternità è emerso soprattutto in questo periodo di pandemia. I giovani desiderano crescere nella gioia per il fratello o la sorella che il Signore permette di incontrare e nel bene verso tutti, allargando così l’orizzonte oltre i membri del proprio gruppo parrocchiale, senza dimenticare che «la vocazione laicale è prima di tutto la carità nella famiglia e la carità sociale o politica»[2]. «In questa situazione di pandemia, nella quale ci troviamo a vivere più o meno isolati, siamo invitati a riscoprire e approfondire il valore della comunione che unisce tutti i membri della Chiesa. Uniti a Cristo non siamo mai soli, ma formiamo un unico Corpo, di cui Lui è il Capo. È un’unione che si alimenta con la preghiera, e anche con la comunione spirituale all’Eucaristia, una pratica molto raccomandata quando non è possibile ricevere il Sacramento»[3].
Nella nostra Diocesi si pensino attività pastorali che possano attrarre e coinvolgere i giovani più lontani dalla fede, mostrando la vera identità della Chiesa: una comunità che vive dell’Eucaristia, dove ci si sente accolti, custoditi e integrati come in una grande famiglia.
È poi fondamentale prestare attenzione al “come” si comunica, a cominciare dall’uso del linguaggio verbale. Nelle Parrocchie vi sia una comunicazione al passo con l’innovazione contemporanea, senza smarrimenti e paure davanti alle novità del presente. Una buona comunicazione, infatti, è preziosa per sfatare alcuni pregiudizi nei confronti della Chiesa.
[1] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Documento finale, n. 138.
[2] Francesco, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus Vivit, n. 168.
[3] Francesco, Angelus, 15 marzo 2020.
«Come l’opera educativa umana è intimamente congiunta con la paternità e la maternità, così la formazione cristiana trova la sua radice e la sua forza in Dio, il Padre che ama ed educa i suoi figli […]. L’opera educativa di Dio si rivela e si compie in Gesù, il Maestro, e raggiunge dal di dentro il cuore d’ogni uomo grazie alla presenza dinamica dello Spirito. A prendere parte all’opera educativa divina è chiamata la Chiesa madre, sia in se stessa, sia nelle sue varie articolazioni ed espressioni»[1]. Chiesa universale, Chiesa particolare, Parrocchia, piccole comunità ecclesiali, i membri stessi tra di loro sono, in maniera diversa, agenti della formazione.
Si organizzino nella Diocesi percorsi di formazione spirituale e pastorale, senza dimenticare quella umana, per i giovani che ne sentono forte desiderio, affinché diventino anch’essi protagonisti nella formazione di altri giovani: ognuno così può tirare fuori il meglio di sé per la causa del Vangelo.
La Chiesa offra proposte formative centrate sulla fede in Gesù, sulla preghiera e sull’ascolto della Parola con il suo riferirsi ai problemi e alle sfide della vita: proposte quindi aperte ai temi esistenziali, che provochino anche i non credenti.
Per realizzare tutto questo, ogni Parroco si senta responsabile nel dare il proprio contributo spirituale e pastorale, affinché nella nostra Chiesa locale ogni giovane possa condividere il proprio vissuto umano e cristiano anche con coetanei appartenenti a comunità parrocchiali diverse. In tal senso, secondo le possibilità, i Parroci mettano a disposizione dei locali per incontri giovanili interparrocchiali itineranti.
[1] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles Laici, n. 61.
«Non si può essere felici se gli altri non lo sono: la gioia quindi deve essere condivisa. Andate a raccontare agli altri giovani la vostra gioia di aver trovato quel tesoro prezioso che è Gesù stesso. Non possiamo tenere per noi la gioia della fede: perché essa possa restare in noi, dobbiamo trasmetterla. San Giovanni afferma: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi… Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (1Gv1,3-4)»[1]. È questo quello che in sostanza i giovani hanno in mente quando desiderano essere corresponsabili. E nel caso in cui non c’è in loro questo desiderio è compito delle comunità risvegliarlo o seminarlo nel cuore di ogni giovane. «A fianco di alcuni indifferenti, ve ne sono molti altri disponibili a impegnarsi in iniziative di volontariato, cittadinanza attiva e solidarietà sociale, da accompagnare e incoraggiare per far emergere i talenti, le competenze e la creatività dei giovani e incentivare l’assunzione di responsabilità da parte loro»[2].
Si attivino percorsi pastorali per far conoscere e far vivere ai giovani delle realtà presenti in Diocesi e che sono lontane dalla loro quotidianità (Case di cura, Case di riposo, Case accoglienza, Case famiglia, Istituti penitenziari, attività della Caritas e mense per le persone in difficoltà). Infatti, «innamorati di Cristo, i giovani sono chiamati a testimoniare il Vangelo ovunque con la propria vita»[3].
[1] Benedetto XVI, Messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, 15 marzo 2012.
[2] Francesco, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus Vivit, n. 170.
[3] Francesco, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus Vivit, n. 175.
Pur riconoscendo che molteplici possono essere i modi e le forme di ogni singola chiamata, il Seminario minore di Oppido Mamertina costituisce il luogo opportuno e naturale per far crescere nella fede e per far maturare i germi di vocazione presenti negli adolescenti che scelgono di frequentarlo. Collegato al liceo “San Paolo”, interno al Seminario, consente ai superiori, scelti dal Vescovo, di conoscere in profondità i soggetti interessati e di poterli indirizzare, fin da subito, a una maggiore familiarità con la Parola di Dio e a una vita di preghiera, che saranno i tratti costitutivi della futura vita sacerdotale. Particolare attenzione è da dare alla scelta dei formatori del Seminario minore, che devono distinguersi per equilibrio psichico, maturità umana e competenza psicopedagogica, spiccata moralità, solida formazione spirituale e teologica e particolare sensibilità di discernimento dell’azione dello Spirito Santo nei giovani chiamati. Essi dovranno agire in coordinamento con il Centro Diocesano Vocazionale sia per l’elaborazione di progetti particolari per la pastorale vocazionale diocesana sia per la capillare opera di diffusione e conoscenza di tali progetti nelle singole Parrocchie del nostro territorio. Deve stare a cuore a tutti i fedeli della Diocesi la vita del Seminario minore: è l’unico, allo stato attuale, rimasto aperto in Calabria. Come luogo di grazia, bisogna preservarlo dal pericolo della chiusura con:
a) preghiere e suppliche al Padrone della messe perché faccia sorgere dalle nostre comunità nuove e sante vocazioni tra i nostri giovani;
b) dopo aver percorso le strade previste dalle norme vigenti, appare auspicabile sensibilizzare l’aiuto economico volto a superare le difficoltà che si presentano nella normale vita della struttura;
c) maggiore divulgazione di notizie circa la vita e l’organizzazione interna del Seminario e del liceo, che possano rendere edotte le famiglie della Diocesi.
La formazione giovanile a una cultura religiosa e la nascita di germi di vocazione nei ragazzi potrebbe avvenire anche attraverso la testimonianza preziosa degli insegnanti di religione nella scuola. Essa è e rimane il luogo di incontro per eccellenza con i giovani che non sono inseriti in un cammino ecclesiale, sede idonea per formare onesti cittadini e buoni cristiani. È necessaria, quindi, una pastorale scolastica che tenga nel dovuto conto il far crescere nei giovani la ricerca delle vere ragioni del loro vivere e sperare: essi si pongono tante domande e mille dubbi sorgono in loro di fronte alla dura realtà del mondo; è necessario, dunque, un annuncio specifico che li porti a cercare e incontrare l’unica persona in grado di dare risposte alle loro domande e di dissolvere la nebbia dei dubbi: Gesù Cristo. Fondamentale diventa, così, la formazione specifica e permanente degli insegnanti di religione, presenza della Chiesa nel mondo della scuola: essi, nell’ambito della loro funzione docente, devono essere capaci di portare nei luoghi dove i giovani vivono, interagiscono e si formano per il domani della loro vita l’annuncio semplice e genuino del Vangelo, favorendo l’apertura all’ascolto e al dialogo tra ragazzi e insegnanti per confrontarsi, discernere, condividere e scoprire sé stessi alla luce della speranza cristiana. È opportuno rivalutare una presenza, pur numericamente bassa ma importante, di sacerdoti che si dedichino all’insegnamento nella scuola e che diventino punto di riferimento per docenti e studenti.
Per quanto concerne i chiamati in età adulta è necessario considerare che la vocazione al presbiterato è un evento che riguarda tutta la Chiesa locale, ed essa ha il diritto-dovere di verificare sia l’autenticità della chiamata che l’idoneità del chiamato. Non possono esserci vocazioni improvvise, che spuntano dal nulla, sconosciute al presbiterio e alla comunità, e che poggiano unicamente sulla testimonianza del Parroco o di un altro singolo sacerdote: testimonianza molte volte condizionata da rapporti personali e legami affettivo/spirituali, che rendono la stessa non pienamente lucida e oggettiva. Perciò è necessario che prima dell’avvio del percorso di formazione del candidato al sacerdozio si consulti il clero diocesano e religioso presente in Diocesi e anche laici credibili e di spiccata vita di fede che lo conoscono, nelle forme e modalità che rispettino la privacy e la dignità della persona interessata, al fine di raggiungere un’ampia e approfondita conoscenza del soggetto e della sua storia, delle sue motivazioni vocazionali e attitudini, in modo tale che il giudizio sulle sue qualità umane e sulla sua vita di fede sia il più obbiettivo possibile.
Il tempo della formazione che precede l’ordinazione presbiterale è fondamentale per dare alla nostra Chiesa sacerdoti con una solida maturità umano-spirituale, capaci di relazioni serene ed autentiche, preparati a leggere i segni dei tempi e ad affrontare le problematiche presenti nel territorio della Piana. Per tutti i candidati al sacerdozio è di fondamentale importanza il discernimento iniziale condotto con oculatezza e rigore. Il periodo propedeutico, che va da un minimo di un anno a un massimo di due, ha la finalità di aiutare il giovane a conquistare una maggiore e più oggettiva conoscenza di sé e delle proprie motivazioni e ad approfondire il suo cammino di discernimento. In questa fase i candidati dovranno ricevere una proposta formativa mirante a sviluppare l’aspetto comunionale con il proprio Vescovo e con il presbiterio diocesano. Proprio per questo motivo è bene che tale periodo preveda una fase da viversi in Diocesi, perché siano a stretto contatto con il Vescovo, che avrà modo di conoscerli e vagliare la loro vocazione, in dialogo con chi ha il compito di accompagnarli nel cammino formativo. In questa fase si auspica un discernimento vocazionale che si avvalga di adeguati e solidi strumenti attinti dalle scienze umane, oggi così necessarie, viste le caratteristiche di forti fragilità che presentano i giovani del nostro tempo provenienti da situazioni familiari difficili e da una società con carenze valoriali.
Il Seminario maggiore non è un collegio, né una casa dello studente: è una vera e propria comunità, formata da battezzati che camminano insieme con lo scopo di maturare nella piena conformazione a Cristo sacerdote. Il primo e fondamentale tirocinio pastorale è la stessa vita comunitaria. In Seminario infatti, attraverso la felice convivenza dei “chiamati”, ci si esercita e si impara l’amore fraterno, l’accoglienza reciproca, il rispetto per l’altro, l’umiltà, la capacità di saper portare gli uni i pesi degli altri e crescere sempre più nella misericordia verso i limiti umani dei propri compagni, senza dimenticare affatto i propri. In Seminario si impara la correzione fraterna, il sacrifico e il senso di appartenenza al presbiterio diocesano curando, soprattutto, a stare lontani dall’invidia che è la malattia dei nostri presbitèri. Si dovrà pertanto evitare che il Seminario sia percepito come un luogo concepito per l’utilità pratica finalizzata allo studio universitario. Esso è il luogo dove Gesù cammina con i suoi discepoli per formarli alla bellezza della missione e alle sfide del tempo presente
Superata la fase propedeutica, comincia per il candidato al sacerdozio il cammino del Seminario maggiore, luogo di formazione umana, intellettuale, spirituale e caritativa. La prima fase di questo cammino, i primi due anni, ha la finalità di plasmare il giovane sul modello del discepolo che, ai piedi del Maestro, ascolta la sua Parola, la studia approfonditamente e la fa sua, interiorizzando i valori evangelici, per poterla annunciare e testimoniare, in seguito, al popolo che gli verrà affidato. È necessario, in questo periodo, introdurre i candidati alla vita attiva pastorale attraverso laboratori di catechetica che li rendano capaci di comunicare, con un linguaggio adeguato e con metodi appropriati (compresi i moderni mezzi di comunicazione), la Parola approfondita nello studio e la loro esperienza vocazionale, che potrebbe diventare fonte di ispirazione per altri giovani come loro. «Durante l’iter formativo verso il sacerdozio ministeriale il seminarista si presenta come un “mistero a sé stesso”, nel quale si intrecciano e coesistono due aspetti della sua umanità, da integrare reciprocamente: da un lato, essa è caratterizzata da doti e ricchezze, plasmata dalla grazia; dall’altro, è segnata da limiti e fragilità. Il compito formativo consiste nel cercare di aiutare la persona a integrare questi aspetti, sotto l’influsso dello Spirito Santo, in un cammino di fede e di progressiva e armonica maturazione di tutte le componenti, evitando le frammentazioni, le polarizzazioni, gli eccessi, la superficialità o le parzialità. Il tempo di formazione verso il sacerdozio ministeriale è un tempo di prova, di maturazione e di discernimento da parte del seminarista e dell’istituzione formativa»[1].
[1] Congregazione per il Clero, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, 8 dicembre 2016, n. 28.
La seconda fase del cammino del Seminario maggiore, gli ulteriori tre anni, tende a modellare i giovani a Cristo Buon Pastore, che ha dato la vita per le sue pecore: essi devono essere pronti ad avere i suoi stessi sentimenti e ad agire spinti da quella misericordia che per primi hanno sperimentato nella loro vita. Per raggiungere tali finalità è necessario puntare sulla formazione delle seguenti qualità:
• lealtà e autenticità nei legami personali;
• attitudine a vivere sani rapporti di amicizia e fratellanza;
• apertura al dialogo con tutti, senza preconcetti, tenendo in considerazione le diversità;
• adottare un comportamento modesto e coerente;
• esercitare il servizio con efficacia nelle varie circostanze della quotidianità;
• conservare un rapporto di tranquillità e gratitudine con i propri familiari;
• perfezionarsi nell’esercizio dell’accoglienza e della carità di fronte alla sofferenza umana.
«Al termine di ogni tappa è importante verificare che le finalità proprie di quel particolare periodo educativo siano state conseguite, tenendo conto delle periodiche valutazioni, preferibilmente semestrali o almeno annuali, che i formatori redigeranno per iscritto. Il raggiungimento dei traguardi formativi non deve essere necessariamente legato al tempo trascorso in Seminario e soprattutto agli studi compiuti. Non si deve, cioè, arrivare al sacerdozio solo in ragione del susseguirsi di tappe poste in successione cronologica e stabilite in precedenza, quasi “automaticamente”, indipendentemente dai progressi effettivamente compiuti in una complessiva maturazione integrale; l’ordinazione, infatti, rappresenta la meta di un cammino spirituale realmente compiuto, che, gradualmente, abbia aiutato il seminarista a prendere coscienza della chiamata ricevuta e delle caratteristiche proprie dell’identità presbiterale, consentendogli di raggiungere la necessaria maturità umana, cristiana e sacerdotale. Alla comunità dei formatori è richiesta coerenza e oggettività nella periodica valutazione integrale dei seminaristi»(1) . Allo stesso tempo «al seminarista è richiesta docilità, revisione costante della propria vita e disponibilità alla correzione fraterna, per corrispondere sempre meglio agli impulsi della grazia»(2) .
Per aiutare i giovani a crescere nella maturità umana, spirituale e caritativa, in questa fase della formazione sono previsti i tirocini pastorali. I seminaristi sono assegnati a delle Parrocchie della Diocesi di appartenenza o a delle Parrocchie di Diocesi diversa dalla loro per vivere e operare nelle comunità: affiancati e guidati dai Parroci, essi entrano in relazione con i fedeli che le formano e che si attendono da loro un annuncio forte e una testimonianza viva, ma che restituiscono a loro anche buoni esempi ed esperienze positive che, assorbiti dai giovani, rimarranno basilari per il futuro. Proprio per questo motivo, si rende necessaria una rimodulazione del tempo da dedicare al tirocinio pastorale: mantenendo l’attività scolastica così come è oggi, si consenta ai seminaristi di partire verso le Parrocchie assegnate il sabato mattina, per poter preparare insieme ai Parroci gli incontri pomeridiani, e di ritornare in Seminario il lunedì mattina in tempo per le lezioni, facilitando, così, l’uso dei mezzi pubblici per il rientro. La scelta dell’esperienza pastorale dei seminaristi sia dettata da criteri che tengano conto dell’inclinazione personale e vocazionale del candidato, nonché delle esigenze di rafforzamento e supporto dei punti deboli nella sua formazione.
In tal senso, il Seminario, oltre alla Parrocchia, valorizzi tutte le forme concrete delle realtà ecclesiali. Si faccia anche in modo che attraverso il tirocinio pastorale, come all’interno della stessa comunità seminariale, siano valorizzati ed esercitati i diversi ministeri. Percorsi di tirocinio pastorale siano quindi pensati specificatamente per aiutare all’esercizio dei ministeri del lettorato e dell’accolitato. Per quest’ultimo ministero, strutture come le Carceri, gli ospedali, le case di cura per anziani o altre strutture caritative, saranno altrettanto utili alla formazione del futuro presbitero. Piuttosto la Diocesi affidi a una parrocchia (che non sia la propria di origine) o a una comunità caritativa il candidato al presbiterato durante i mesi estivi, ricordando che il tirocinio pastorale non si risolve nel “fare” ma nell’“osservare” la vita dei preti, loro futuri confratelli, e delle comunità in cui si vive e si annuncia il Vangelo.
[1] Paolo VI, Ministeria quaedam, V; I ministeri nella Chiesa, n. 58; Evangelizzazione e ministeri, n. 64; Codice di Diritto Canonico, Can. 1035.
[1] Ivi.
Nel corso del sesto anno, comunemente si ritiene che i seminaristi siano pronti a introdursi gradualmente nella vita pastorale. Dopo aver esaminato le relazioni di tutti gli anni fatte da coloro che ne hanno curato la formazione, i membri della Commissione per gli Ordini Sacri della Diocesi, insieme al Vescovo, potranno esprimersi in modo obbiettivo circa l’ammissibilità dei candidati all’ordinazione diaconale, prima, e sacerdotale, poi. L’ordinazione diaconale sarà fissata con il candidato nel tempo più conveniente affinché ai doveri derivanti dal Sacramento egli possa dedicarsi con crescente consapevolezza e disponibilità operativa, fraterna e sincera unitamente a rispettosa collaborazione con il presbiterio nell’ambito pastorale caritativo, parrocchiale e diocesano che gli verrà affidato.
L’ultimo tratto della formazione, il sesto anno, sarebbe utile rimodellarlo, facendo in modo che i corsi previsti in Seminario siano più dilazionati nel tempo, concentrando l’attività formativa nei primi giorni della settimana, dal lunedì al mercoledì, per poi rientrare nelle Parrocchie dove si è stati assegnati: ciò permetterà di vivere bene l’attività pastorale nel fine settimana, ma anche di poter partecipare più intensamente alla vita diocesana, così da permettere ai Diaconi di inserirsi sempre meglio in quella comunione presbiterale, cui da lì a poco saranno chiamati a partecipare in pienezza.
La formazione dei presbiteri non si conclude con la fine dell’iter istituzionale del Seminario, bensì deve essere un cammino costante per raggiungere quella che San Paolo chiama “la piena maturità di Cristo” (cfr. Ef 4,13). La Pastores dabo vobis afferma: «La formazione permanente dei sacerdoti sia diocesani sia religiosi è continuazione naturale e assolutamente necessaria di quel processo di strutturazione della personalità presbiterale che si è iniziato e sviluppato in Seminario o nella casa religiosa con il cammino formativo in vista dell’Ordinazione» (n. 71). Essa, dunque, deve far parte integrante della vita del presbitero per ravvivare in continuazione il dono ricevuto con il Sacramento dell’Ordine: prima di essere un servizio offerto dalle strutture diocesane esistenti ad hoc, deve essere intesa come un’esigenza della vocazione sacerdotale stessa. In questo progressivo cammino formativo, che porta a una profonda trasformazione del cuore e della mente e che abbraccia tutta la vita, il sacerdote rinnova il suo “sì” ogni giorno a Cristo e alla sua Chiesa: sarà la sua risposta effettiva per alimentare la carità pastorale che lo spinge a operare in nome e per conto di Cristo, secondo l’invito di S. Paolo a Timoteo: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te» (2Tim 1,6).
La collaborazione del presbitero all’opera di salvezza di Cristo nella Chiesa è un’esigenza fondamentale. Ma perché essa possa essere portatrice di frutti deve prevedere il distacco del sacerdote dal male, dal mondo del peccato. L’ignoranza è il primo di questi mali: nel popolo l’ignoranza è scusa, nel prete è colpa: «Niente è più spaventoso nella Chiesa di un ignorante che prende la cura pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti»[1]. Le lacune e le incertezze presenti nel clero vanno colmate: nell’attività pastorale vengono alla luce risorse e potenzialità, ma anche fragilità e inconsistenze. Il sacerdote, infatti, viene a contatto con le diverse problematiche delle persone, che si attendono risposte adeguate alle loro necessità. Ma nessuno può dare se prima non ha: non solo, dunque, formazione teologica, biblica, liturgica, catechetica, ma anche umana, psicologica, pedagogica, tanto importante per attirare e non allontanare i fedeli.
[1] Regola Pastorale di San Gregorio Magno, Pontefice Romano, a Giovanni Vescovo della città di Ravenna, Parte prima, 1.
Il secondo dei mali da evitare è la cupidigia della carne nel suo duplice aspetto di attaccamento al denaro e di coinvolgimento nella sensualità del corpo.
• Il denaro: una mancata formazione permanente pone i presbiteri dinnanzi al rischio di diventare “funzionari del culto ad ore”, di cedere alla tentazione dell’accaparramento di beni e dell’avarizia, dell’autoritarismo, del carrierismo e, anche più semplicemente, a ridurre gli impegni pastorali allo stretto necessario per dedicarsi ad attività più redditizie. Si rende necessaria, dunque, un’educazione alla sobrietà della vita e alla modestia, in modo tale da non creare disarmonia tra la Parola annunciata e la vita condotta. La retta gestione dei beni personali del sacerdote e di quelli della Parrocchia a lui affidata consentirà alla comunità, sulla base di un esempio concreto del proprio pastore, di avere più attenzione alle nuove situazioni di povertà che si incontrano nel nostro territorio, e in modo particolare le realtà difficili dei disoccupati, delle famiglie divise e senza reddito, delle famiglie dei carcerati, dei giovani senza lavoro e senza prospettive per il futuro e per questo a rischio di cadere nella rete della malavita organizzata.
• La sensualità: senza un programma adeguato di formazione spirituale permanente il sacerdote rischia di perdere piano piano le motivazioni della propria vocazione e dell’esercizio della carità pastorale e di diventare vittima della routine quotidiana e di altri problemi che lo possono portare alla deviazione della sua condotta e alla ricerca di colmare il vuoto interiore con attaccamenti morbosi a persone di questo mondo. Ciò è causa di scandali tremendi: Gesù nel Vangelo è severissimo nei confronti di chi crea questi tipi di problemi, perché il peccato del sacerdote può generare il peccato del popolo. In questo caso nel peccato del prete c’è la malizia dell’adulterio, perché l’amore di Cristo per la Chiesa e per lui personalmente è un amore nuziale; e c’è la malizia del peccato originale, perché è un peccato che si trasmette, si propaga a macchia d’olio.
86. Il terzo dei mali da fuggire è l’accidia: non ci può essere posto nella nostra Chiesa per preti che non fanno niente. Il sacerdote è chiamato a operare pastoralmente; e anche per lui vale la regola paolina: «Chi non lavora neppure mangi» (2Tes 3,10). Il primo degli impegni del prete è quello di prepararsi continuamente per affrontare le sfide poste alla Chiesa dal nostro mondo: secolarizzazione, nuova evangelizzazione, inculturazione della fede, processo di liberazione del nostro popolo. Tali sfide richiedono la formazione permanente, mancando la quale nessun sacerdote può esercitare il mandato di portare il messaggio del Vangelo senza rischiare di essere anacronistico e di rendere, così, vana la sua attività pastorale. Il Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri (14/01/2013) nell’introduzione al capitolo III afferma: «È fondamentale che i sacerdoti siano consapevoli del fatto che la loro formazione non è finita con gli anni di Seminario. Al contrario, dal giorno della sua ordinazione, il sacerdote deve sentire la necessità di perfezionarsi continuamente, per essere sempre di più di Cristo Signore». La Diocesi, nelle persone del Vescovo e del Vicario Episcopale per il clero, ha dunque il compito di programmare il cammino formativo per i preti che sia il più completo possibile, toccando non solo le problematiche di natura teologica (formazione biblica, Magistero della Chiesa, liturgia, catechetica, ecc.), ma anche gli aspetti umani della vita (psicologia, morale, pedagogia, ecc.) e indicando proposte pastorali da mettere in atto per diventare vera “Chiesa in uscita”. I sacerdoti, da parte loro, devono percepire che è un loro dovere, innanzi a Dio e al popolo che Lui ha loro affidato, partecipare a tutti gli incontri preparati esclusivamente per il loro perfezionamento, sia che si tratti di ritiri spirituali sia che si tratti di formazione intellettuale, teologica e umana. Rifiutarsi di farlo, per qualsiasi motivo personale, che non sia la malattia o un serio impegno di natura pastorale concomitante, significa non avere chiaro in mente quale compito essi hanno assunto nella missione data da Cristo alla sua Chiesa.
Un altro male da cui fuggire è l’egocentrismo. Quando il sacerdote poggia la sua vita solo su sé stesso e pensa di aver raggiunto lo scopo della missione facendo convergere le persone verso di lui ha fallito in pieno il suo compito. Non è il prete che salva per se stesso: c’è un solo Essere che salva e che esiste per se stesso: Dio. Il sacerdote compie il suo dovere nella misura in cui pone le basi del suo operare su di Lui. Quando si dimentica questo fondamento il ministero perde tutta la sua efficacia. Le buone doti personali (la conoscenza scientifica, teologica, la simpatia, la capacità di avvicinare e parlare alle persone, ecc.) sono state donate ai ministri da Dio e non devono servire per deviare le persone dall’unico percorso che salva: il Vangelo. In questo modo si passa da Dio all’io; il percorso, invece, è quello contrario, dall’io a Dio. Questa conversione può avvenire solo tramite una formazione permanente che consenta ai sacerdoti di percepire in pienezza chi sono loro e chi è Cristo, che li ha chiamati e mandati.
• Chi sono i preti? Uomini in mezzo agli altri uomini. Battezzati come tutti i battezzati. Scelti da Dio, consacrati a Lui e mandati ai fratelli non per meriti propri, ma per libera volontà Sua. Peccatori come tutti, ma redenti e perdonati da Cristo, come tutti. Dotati dallo Spirito Santo di carismi attraverso i quali svolgere il loro ministero particolare. Impastati dalla terra, ma strumenti di grazia. Non sono loro che salvano il mondo, ma è Cristo l’unico Salvatore. Non sono delle persone arrivate alla meta della salvezza, ma se la devono conquistare con la loro missione, testimoniando l’essere di Cristo, irradiando la sua luce, riconoscendo i propri limiti e avendo a cuore di condurre il maggior numero di persone al contatto con Lui.
• Chi è Cristo? È «la via, la verità, la vita» (Gv 14,6). Non una via, sia pure la più alta e sublime, ma la via, l’unica. La verità esclusiva e completa; le altre sono verità parziali e frammentarie, solo Lui è la verità totale, quella che salva. La vita, quella divina, partecipata a tutti in modo sovrabbondante nel Battesimo. Egli è il fondamento senza il quale non si può fare nulla: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). È su questo fondamento che bisogna edificare la nostra Chiesa, aperta alla partecipazione di tutti i cercatori di Dio. Questa conversione del sacerdote deve essere continua, perché continua è la tentazione di ritenersi autore della salvezza delle persone. Tutto il suo apostolato (annuncio, catechesi, liturgia) vale perché Cristo ne è alla base: i presbiteri non sono altro che poveri strumenti in mano sua.
Altro male da cui allontanarsi è la chiusura e l’indifferenza verso le persone. Oggi più che mai i fedeli hanno bisogno di sentirsi accolti, conosciuti, ascoltati; ma molte volte trovano davanti a loro dei muri, costruiti con la scusante della mancanza di tempo da parte dei sacerdoti. È vero che in questi ultimi anni i preti hanno visto moltiplicarsi i loro impegni, ma l’attivismo esasperato non può portare a trascurare le vere necessità degli uomini del nostro tempo: il presbitero deve dare la possibilità del dialogo a tutti per conoscere l’animo dei fedeli, per riportare gli smarriti a Cristo e per versare sulle loro ferite il balsamo della sua grazia. Le nostre Chiese si svuotano, forse, perché i Parroci rimangono troppo poco tempo a disposizione nelle Parrocchie: poco disposti a mettersi seduti a confessare, ascoltare, consolare e incoraggiare, e troppo poco inclini ad abbracciare chi, pentito di una vita condotta nel peccato e nella lontananza da Dio, vuole tornare a Lui. Anche sotto questo aspetto il modello è Cristo. L’amore di Gesù verso gli esseri umani è universale: ha amato tutti gli uomini. Ma amando tutti, li ha amati singolarmente presi. Cristo non ha amato un’umanità astratta o una classe sociale o un popolo soltanto: ha amato tutti e ciascuno in particolare, singolarmente. Il sacerdote può arrivare ad amare la Parrocchia astrattamente, ritenendola come cosa di sua proprietà da utilizzare per il rendiconto personale. La formazione permanente, spirituale e umana, deve portare il prete alla consapevolezza che la Parrocchia nella sua realtà è formata dai singoli fedeli che la compongono: bisogna amarli uno ad uno come Cristo, fino a dare la vita per loro, sia che siano belli o brutti, simpatici o antipatici, docili o recalcitranti, santi o peccatori. Gesù gli uomini non li ha amati perfetti: basta considerare il collegio apostolico dove ha trovato posto un traditore, un rinnegatore, diversi zeloti e tutti codardi, tranne uno, di fronte alla croce; li ha amati così com’erano, senza illusioni. Li ha amati perfino nel loro peccato: è l’accusa che gli fanno i suoi avversari: «Va a mangiare con i peccatori e le prostitute» (Mt 9,11). I peccatori gli possono andare vicino perché Egli li ascolta e li accetta con le loro miserie e, a chi lo rimprovera, dice: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Lc 5,31). È così che il sacerdote deve amare la sua Parrocchia: il suo destino eterno si gioca qui: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare […] Venite benedetti del Padre mio […]. Avevo fame e non mi avete dato da mangiare […] Lontano da me, maledetti […]». Quando, Signore? Quando lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, al più povero d’intelligenza, al più emarginato dalla società, al più ottuso nello spirito, al più deforme nel corpo, lo avete fatto a me! (cfr. Mt 25,34-46). Ogni prete si dovrà chiedere: ho riconosciuto Cristo nell’ultimo dei miei parrocchiani: bambino, malato, povero? Sono forse stato gretto, chiuso e ostinato così da non vederlo e rifiutarlo? È una verità da richiamare ogni giorno, questa, per vedere concretamente nei fratelli, in chi gli sta accanto, in chi si è chiamati ad accostare e accompagnare nel duro cammino della fede, il Dio Creatore, Redentore, Santificatore.
Il male forse più grave da evitare è la mancanza di comunione all’interno del presbiterio della Diocesi. Sia la formazione iniziale del Seminario che quella permanente devono avere di mira l’edificazione di una comunione presbiterale, fondata su accoglienza reciproca, sostegno vicendevole e una spontanea, attiva e reale carità verso tutti. Se l’animo dei sacerdoti fosse intaccato da cattive abitudini, come il tentativo di isolamento o la manifesta indifferenza per la vita degli altri preti o il senso di sufficienza nei confronti dei confratelli, esso deve essere aiutato in ogni modo a liberarsi da queste catene che atrofizzano la carità. Il mancato apprezzamento delle doti dell’altro, la gelosia, l’invidia, la rivalità personale o addirittura l’inimicizia, sono tutti sentimenti che provocano il soffocamento e il blocco della fraternità sacerdotale. I rapporti tra confratelli non sono i comuni rapporti di carità tra persone qualsiasi ma, partendo dalla realtà sacramentale che essi vivono, sono rapporti che entrano nella struttura stessa della Chiesa: coloro che portano nel mondo l’unico Vangelo di Cristo, che celebrano lo stesso mistero di salvezza che costruisce la Chiesa, che sono chiamati in primis a mostrare visibilmente a tutti la sua unità, che parlano di amore e portano la misericordia di Dio, non possono essere divisi. È assolutamente necessario che parlino e agiscano all’unisono, pur rispettando e accettando le loro diversità umane, formative e dei doni ricevuti dallo Spirito Santo. Se i preti nella nostra realtà diocesana fossero più uniti tra loro fino a formare «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32), se andassero più d’accordo anche e soprattutto dal punto di vista pastorale, se non vedessero nel confratello un rivale o un pericolo a livello personale, se lavorassero insieme in équipe, se fossero meno boriosi e presuntuosi, se testimoniassero con la loro vita amore e umiltà, quanto bene maggiore si potrebbe compiere nella nostra terra! È proprio nel campo della carità e dell’umiltà sacerdotale che giochiamo oggi tutta la credibilità del nostro clero.
L’azione che sana le ferite nel rapporto tra confratelli nel sacerdozio è la correzione fraterna. Gesù stesso ci ha insegnato a correggere con amore e nella verità il fratello che commette un errore. Pertanto chi corregge deve imitare Gesù che perdona e non disprezza; deve farlo con animo sereno, porgendo la mano, affinché l’altro si ravveda e, rialzandosi, riprenda il suo cammino sacerdotale con fiducia e speranza. Chi è corretto non senta tale azione come un giudizio di condanna, ma la percepisca come un atto di amore e di interesse amicale vero nei suoi confronti. In questo modo si arriva a rendere visibile il principio di San Paolo espresso ai Romani nella sua lettera: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10). La comunione presbiterale richiede un’attenzione coscienziosa, spirito di sacrificio e responsabilità nei confronti dell’altro. Emerge, dunque, una necessità forte a riscoprire il valore di tale comunione e a superare i muri di diffidenza e di divisione che ancora si possono rilevare all’interno del clero diocesano. Per incamminarsi verso una vera comunione è importante andare oltre le distanze generazionali, i cammini diversi di formazione, la scarsa conoscenza reciproca e la cultura propria del nostro territorio, di cui tutti si è imbevuti, carica di spinte individualistiche e concorrenziali.
L’imitazione di Cristo deve portare il sacerdote al dinamismo di Cristo. Egli, risuscitato e glorificato, è continuamente presente grazie alla realtà sacramentale e tale presenza deve suscitare in tutti i presbiteri una tensione all’incontro con Lui. È proprio questa tensione che caratterizza e differenzia la vita presbiterale. Altro è un sacerdote che cerca la sua realizzazione completa qui sulla terra, altro è un prete che è ben convinto di non avere in questa dimensione terrena una città permanente (cfr. Eb 13,14). Che cosa produrrà questa diversità di vedute? Il primo esempio una comunità radicata sulla faccia della terra solo rivolta agli interessi umani, come un’azienda ottimamente organizzata per dare il suo utile netto; il secondo esempio una comunità in cammino, sinodale, pellegrinante sulla terra con la lampada accesa nelle mani (cfr. Mt 25,1-13) in attesa che, all’arrivo dello Sposo, le porte del banchetto siano aperte. Questa propensione all’incontro personale con Lui, deve costituire la base per una nuova formazione dei nostri presbiteri, di modo che essi possano favorire insieme la costruzione di una Chiesa locale che sia:
• Chiesa in continuo cammino: non radicata o attaccata ai beni di questo mondo, che non si sente perfetta, ma sempre tesa verso la perfezione;
• Chiesa che faccia tesoro del passato valorizzandolo, che vive bene il presente, progetta il futuro e guarda in alto, da dove gli verrà l’aiuto;
• Chiesa che non pretende nulla sulla terra: non privilegi, non onori, non potenza;
• Chiesa povera, che serve; Chiesa che vive nel mondo ma non appartiene al mondo.
• Chiesa in uscita, che raggiunge le persone nei loro luoghi e situazioni di vita e che si rende presente nelle periferie esistenziali e geografiche.
Ai nostri sacerdoti, dunque, auspichiamo che possano assumere la vera libertà del cuore per essere sempre più simili a Cristo.
Questo Santo Sinodo sente di dover esprimere la gratitudine di tutta la comunità cristiana della Diocesi per il servizio prezioso che esercitano i nostri preti, reso spesso in condizioni difficili e sempre meno riconosciuto socialmente. Senza sacerdoti le nostre comunità presto perderebbero la loro identità evangelica, quella che scaturisce dall’Eucaristia, che solo attraverso le mani del presbitero viene donata a tutti. Essi esistono per rinnovare e manifestare la presenza di Cristo nella Chiesa e nel mondo: il sacerdozio è tutto qui, innestato sulla Pasqua di immolazione e di risurrezione di Cristo; esso, dunque, deriva dal sacrificio ed è per il sacrificio, per la salvezza delle anime. Il prete è coerente con se stesso se tende al sacrificio, consapevole che la sua funzione di mediatore tra Dio e gli uomini, come Gesù, egli la può realizzare solo con il sacrificio personale: è una contraddizione vivente un sacerdote che, essendo nel segno eucaristico un sacrificatore, non è insieme e prima un sacrificato, agendo in Persona Christi. Essenza del sacerdozio non è la carriera o la soddisfazione personale, ma è la croce; è l’ansietà per il bene delle anime; è vedere non la Chiesa piena, ma quelli che in Chiesa non ci sono; è constatare che nonostante l’azione pastorale, anche ben condotta, i battezzati non frequentano o, se anche lo fanno, non diventano migliori. Non cadano i nostri sacerdoti nello scoraggiamento spirituale se non riscontrano risultati immediati per la loro azione pastorale: sostenuti umanamente e dalla preghiera delle comunità, in comunione di vicinanza e confronto con il Vescovo, continuino nella loro preziosa missione, con la consapevolezza che se non c’è chi semina non ci sarà neppure chi raccoglie. Ma l’entità e la bontà del raccolto non dipendono da loro, ma da Cristo Signore.
È necessario ripensare alla redistribuzione dei sacerdoti nel territorio della nostra Diocesi e dare vita, dove le condizioni lo consentano, alla creazione di comunità pastorali e/o comunità sacerdotali. Questo si rende quanto mai urgente per due ordini di motivi:
Il diaconato è Sacramento: il primo grado dell’Ordine Sacro. Ha delle funzioni proprie che non si possono togliere o limitare; farlo significa sminuirne il valore. È importante perciò auspicare che nella nostra Diocesi il diaconato permanente venga vissuto come nella Chiesa delle origini, dove emerge bene il senso e lo scopo del mandato diaconale: collaborare con il ministero apostolico dei Vescovi nella fedeltà ai suoi compiti essenziali (la predicazione della Parola di Dio) e nella sollecitudine per i bisogni più concreti delle persone (il servizio delle mense) (cfr. At 6,1-6). Di loro si specifica: «Siano dignitosi e conservino il mistero della fede in una coscienza pura. Perciò prima siano sottoposti ad una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio» (1Tim 3,8-10.12-13). L’antica Didascalia degli Apostoli raccomanda al diacono una comunione stretta e cordiale con il Vescovo: «Egli sia l’orecchio del Vescovo, la sua bocca, il suo cuore, la sua anima: due in una sola volontà». La Tradizione apostolica di Ippolito descrive il rito di ordinazione dei diaconi mediante l’imposizione delle mani del solo Vescovo e spiega: «Perché il diacono non è ordinato per il sacerdozio, ma per il servizio del Vescovo». Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha rivalutato l’importanza del ministero diaconale per la vita della Chiesa come ruolo in se medesimo, sicché si è riscoperto il valore del diaconato permanente, che consacra il battezzato a vita nel ruolo di servizio ministeriale e può essere conferito anche a coloro che hanno già contratto matrimonio. Il suo servizio è esercitato nella liturgia, nella predicazione e nella carità, in comunione con il Vescovo e il suo presbiterio[1]. L’ordinazione rende il diacono membro effettivo del clero e facente parte della gerarchia ecclesiale di una specifica Diocesi, in cui è incardinato. I compiti del diacono vengono presentati in maniera chiara dal Magistero: «È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il Battesimo, conservare e distribuire l’Eucaristia, assistere e benedire il Matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i Sacramenti, presiedere al rito funebre e alla sepoltura»[2] . Il diacono espleta, inoltre, il servizio verso i poveri e gli ultimi attraverso la Caritas parrocchiale e diocesana. Egli si può anche prendere cura dei disagi personali e comunitari attraverso l’istituzione e la conduzione, insieme a laici ben preparati, dei centri di ascolto, quanto mai necessari nella nostra realtà.
[1] Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 29
[2] Ibidem.
Il diaconato permanente nasce da una vocazione: una chiamata che viene da Dio per un servizio da rendere a Lui nella sua Santa Chiesa. Non è, dunque, una scelta personale per occupare un “presunto ruolo di prestigio”, né tantomeno può essere considerato una fonte di reddito aggiuntivo: il diaconato è espressione del libero dono di sé per un prezioso contributo all’evangelizzazione e alla promozione del Regno di Dio. Il ruolo del diacono non è finalizzato solo al ministero racchiuso all’interno della comunità parrocchiale: i suoi compiti si estendono alla famiglia e al luogo di lavoro, dove deve testimoniare con l’intera sua vita il Cristo, che lo ha chiamato e inviato nel mondo. Per i candidati al diaconato permanente si richiede una testimonianza di fede forte e continua, una vita morale irreprensibile, un impegno già vissuto all’interno della propria comunità di origine nella carità e al servizio dei sofferenti, la capacità di intessere all’interno della realtà ecclesiale relazioni di comunione, che egli già testimonia con la propria vita matrimoniale. Per svolgere, poi, appieno la loro missione ed essere veri testimoni di Cristo-Servo, i candidati al diaconato permanente devono essere preparati con un adeguato iter formativo iniziale di natura teologica, spirituale e umana; inoltre esperienze pastorali serie e probanti saranno in grado di forgiarne il carattere e mettere a prova le qualità personali e i carismi ricevuti dallo Spirito Santo. Anche per i diaconi, come per i presbiteri, si impone una formazione permanente che tenga conto, in maniera specifica, del mandato che essi devono svolgere nella nostra realtà: nuove proposte formative sono necessarie oggi nella Diocesi per consentire sempre più di riconoscere nel diacono l’immagine viva di Cristo che serve, si fa carico delle sofferenze e proclama il regno di Dio.
Nella nostra Diocesi è necessario favorire una maggiore comunione all’interno del collegio diaconale. La testimonianza di rispetto reciproco e di unità d’intenti non può che favorire l’annuncio di Cristo nel concreto della vita, non tanto e non solo con le parole, ma con i fatti. Molte volte ciò che viene insegnato a parole non viene compiuto con i gesti. È da costruire, inoltre, più fraternità tra diaconi e presbiteri: non si è in concorrenza rispetto alla missione pastorale, ma tutti si tende all’unico fine, cioè portare a Cristo le persone che vivono nel nostro territorio. Avendo chiaro lo scopo del loro esistere e operare, ciascuno con il proprio ruolo e nel riconoscimento reciproco del proprio servizio specifico, diaconi e presbiteri lavorino nella vigna del Signore, mettendo in atto i talenti personali, provenienti dall’alto, di cui gli uni e gli altri sono dotati.
Una speciale attenzione deve essere riservata alla famiglia del diacono permanente. Essa ha la fortuna di essere stata benedetta da Dio con una duplice grazia di stato: quella derivante dal sacramento del Matrimonio e quella proveniente dal Sacramento dell’Ordine Sacro. La moglie del diacono, che ha accolto la chiamata del proprio sposo come un dono speciale e che ha acconsentito alla sua ordinazione, deve affiancare il marito nel servizio alla Chiesa, preoccupandosi anche lei, nell’ambito della comunità parrocchiale di cui fa parte, di dare il suo contributo alla catechesi e alla Caritas. È lei che sostiene lo sposo e ne condivide gioie e fatiche nella vita familiare e ministeriale. È contemporaneamente sposa, sposa di un diacono, mamma e lavoratrice. Si trova a dover gestire situazioni diverse nell’ambito della vita quotidiana; deve, inoltre, preoccuparsi di fronteggiare e superare, dal punto di vista spirituale, diverse problematiche: di natura personale, di coppia, familiare e comunitarie. Anche i figli del diacono sono chiamati a testimoniare la loro fede con umiltà, prestando il loro servizio nella carità. La famiglia, che potremmo definire diaconale, ha bisogno di essere seguita nel percorso della sua crescita spirituale dal Delegato Episcopale, con un apposito cammino che incoraggi tutti i suoi componenti a essere all’altezza del loro compito.
«Tutti coloro che, chiamati da Dio alla pratica dei consigli evangelici, ne fanno fedelmente professione, si consacrano in modo speciale al Signore, seguendo Cristo che, casto e povero (cfr. Mt8,20; Lc9,58), redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte di croce (cfr. Fil 2,8). Così essi, animati dalla carità che lo Spirito Santo infonde nei loro cuori (cfr. Rm 5,5) sempre più vivono per Cristo e per il suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). Quanto più fervorosamente, adunque, vengono uniti a Cristo con questa donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più si arricchisce la vitalità della Chiesa e il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo»[1].
Perché questa nostra Chiesa diocesana sia arricchita dalla presenza apostolica delle religiose e dei religiosi è necessario che questi, animati dallo Spirito, vivano e testimonino fedelmente il loro carisma originario aperti però alle istanze, alle provocazioni, alle urgenze delle realtà sociali, ambientali, politiche, religiose, in cui sono chiamati a operare, e rendano così evidenti come Chiesa e nella Chiesa, i doni della santità e della cattolicità attraverso la presenza e la cura della persona, della sua dignità e nelle sue più svariate necessità.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae Caritatis, n. 1.
«Siccome quindi i consigli evangelici, per mezzo della carità alla quale conducono, congiungono in modo speciale coloro che li praticano alla Chiesa e al suo mistero, la loro vita spirituale deve pure essere consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di qui deriva il dovere di lavorare, secondo le forze e la forma della propria vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l’attività effettiva, a radicare e consolidare negli animi il regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra»[1].
È compito del Vescovo, del presbiterio e della comunità diocesana conoscere, apprezzare, dar fiducia alle diverse Comunità religiose, femminili e maschili, presenti in Diocesi per far sì che spiritualità e pastoralità cooperino nella diffusione del Regno di Cristo: non tanto con una diffusione fatta di parole, ma espressa in gesti concreti che ricalchino l’operato evangelico di Cristo Gesù. A tale scopo è necessario che si crei una sempre più ampia e vera comunione-collaborazione tra le diverse vocazioni e stati di vita, in modo da dar testimonianza di fraternità, di complementarietà e di stima reciproca nel rispetto delle diversità
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 44.
«I sacerdoti e gli educatori cristiani facciano seri sforzi, affinché per mezzo di vocazioni religiose, scelte in maniera conveniente e accurata, la Chiesa riceva nuovi sviluppi in piena corrispondenza con le necessità del momento. Anche nella predicazione ordinaria si tratti più frequentemente dei consigli evangelici e della scelta dello stato religioso. I genitori, curando l’educazione cristiana dei figli, coltivino e custodiscano nei loro cuori la vocazione religiosa»[1].
I sacerdoti, in particolare, siano formati e preparati ad accompagnare, attraverso un serio discernimento, quei giovani che sono in ricerca vocazionale o nei quali si intraveda la possibilità che possano approdare a una scelta di vita consacrata. Un servizio certo delicato, ma indispensabile e urgente se non vogliamo che vadano persi i tanti valori umani, spirituali, evangelici che hanno dato e danno senso, gioia e speranza a una vita donata per amore. È inoltre importante che nel cammino di formazione dei seminaristi sia dato spazio alla teologia della vita consacrata perché ne abbiano una giusta conoscenza e stima. Nella pastorale giovanile si abbia a cuore di presentare il valore umano, cristiano e apostolico di ogni vocazione per rendere i giovani più consapevoli delle loro scelte di vita.
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae Caritatis, n. 24.
Questo santo Sinodo riafferma con convinzione la fede della Chiesa che è in Oppido Mamertina-Palmi nella divina rivelazione del Dio Trino e Uno. Pienezza di questa rivelazione è Gesù Cristo, il quale è venuto nel mondo per comunicarci la vita divina e mostrarci il vero volto del Padre[2]. Dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito Santo, che ricolma di doni la sua Chiesa e ogni credente[3] e li guida alla pienezza della statura di Cristo. Questo è il principale scopo della vita cristiana affinché, avendo in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, siamo condotti alla piena realizzazione della salvezza. Pertanto, è necessario riscoprire l’incontro personale e comunitario con il Signore Risorto per partecipare pienamente alla vita di Dio, Trinità d’Amore, fonte della “gioia piena” (1Gv 1,4). Ed è dono e compito imprescindibile della Chiesa comunicare la gioia che viene dall’incontro con la Persona di Cristo, Parola di Dio presente in mezzo a noi. In un mondo che spesso sente Dio come superfluo o estraneo noi confessiamo, come Pietro, che solo Lui ha “Parole di vita eterna” (Gv 6,68). Non esiste priorità più grande di questa: riaprire all’uomo di oggi l’accesso a Dio, al Dio che parla e ci comunica il suo amore perché “abbiamo vita in abbondanza” (Gv 10,10).
[2] Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 2.
[3] Cfr. Ibidem, n. 5.
Se vogliamo veramente operare nella nostra terra una conversione pastorale, dobbiamo partire dalla contemplazione dello stile del primo evangelizzatore, il Signore Gesù. Se teniamo lo sguardo fisso su di Lui vediamo che è stato un vero missionario: è andato di città in città e di villaggio in villaggio ad annunciare la Buona Notizia della salvezza. La stessa missione ha lasciato ai suoi: “Andate dappertutto e annunciate” (Mc 16,15). L’evangelizzazione sta alla base di tutto e deve avere il primato su tutto. Il suo è un contenuto essenziale, formulato con un linguaggio diretto e immediato: si deve ancora oggi annunciare la salvezza per ogni uomo con un appello alla conversione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Il messaggio cristiano, che ancora oggi siamo chiamati a trasmettere, è un evento, non una dottrina; non è un insegnamento morale né una teoria di valori condivisibili dai più (solidarietà, pace, progresso, ecc.); il Vangelo è anzitutto annuncio della morte redentrice di Cristo, della sua risurrezione, della sua universale signoria. Altrimenti, più che evangelizzare si viene mondanizzati, più che annunciare un riscatto si dà l’illusione all’umanità che possa riscattarsi da sola con una serie di buoni propositi e la missione diviene propaganda, il Vangelo diventa a misura d’uomo (relativismo religioso). Anche per trasmettere nel modo giusto l’evento Cristo è necessario rifarsi al linguaggio vario e molteplice, che Lui stesso ha utilizzato. Egli formula il suo annuncio con sentenze e parabole, con esortazioni e minacce, con colloqui e dibattiti, con il linguaggio narrativo, che è quello prevalente, ma anche con il linguaggio assertivo. Tre sono le dimensioni che devono essere tenute presenti nella strutturazione del nostro annuncio:
«In linea generale si può ritenere che l’evangelizzazione è la proclamazione, da parte della Chiesa, del messaggio della salvezza con la Parola di Dio, con la celebrazione liturgica, con la testimonianza della vita»[4].
[4] CEI, Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo, n. 6.
Seguendo gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ribadiamo che l’economia della Rivelazione si manifesta con eventi e parole intimamente connessi, di modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto[5]. La Chiesa, inoltre, attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura, ma anche dalla Tradizione, che è di origine apostolica e progredisce nella Chiesa attraverso l’accompagnamento dello Spirito Santo[6]. Pertanto, attraverso la Sacra Scrittura e per mezzo della predicazione apostolica, «la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede»[7]. La liturgia è «l’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente della nostra vita, parla oggi al suo popolo che ascolta e risponde […] In effetti, la celebrazione liturgica diventa una continua, piena ed efficace proclamazione della Parola di Dio. Pertanto essa, costantemente annunciata nella liturgia, è sempre viva ed efficace per la potenza dello Spirito Santo e manifesta quell’amore operante del Padre che giammai cessa di riversarsi su tutti gli uomini»[8]. Sono da tenere in necessario onore e considerazione, dunque, questi due pilastri della vita divina comunicata alla Chiesa: Parola di Dio e Tradizione, in modo da ritornare a stupirsi, ancora oggi, della continua presenza di Dio, al fine di formare un popolo in ascolto della voce del Padre, che parla agli uomini come ad amici. Per questo motivo si abbia a cuore la formazione biblica dei fedeli in tutti i modi e tempi possibili, perché la vita dei credenti sia plasmata dalla Parola viva ed efficace della Scrittura.
[5] Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 4.
[6] Cfr. Ibidem, n. 8.
[7] Ivi.
[8] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, n. 52.
La Chiesa locale dovrà mettere in campo tutte le energie possibili perché diventi capillare nell’intero territorio diocesano una seria e decisa pastorale biblica, intesa come “animazione biblica” dell’intera pastorale. Ciò significa che: «Non si tratta di aggiungere qualche incontro in Parrocchia o nella Diocesi, ma di verificare che nelle abituali attività delle comunità cristiane, nelle Parrocchie, nelle Associazioni e nei Movimenti si abbia realmente a cuore l’incontro personale con Cristo, che si comunica a noi nella sua Parola. In tal senso, poiché “l’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo”, l’animazione biblica di tutta la pastorale ordinaria e straordinaria porterà ad una maggiore conoscenza di Cristo, rivelatore del Padre e pienezza della rivelazione divina»[9]. Laddove si dovesse riscontrare che ciò non viene attuato, sarà necessario che quella specifica comunità venga sollecitata e aiutata ad attuare la pastorale biblica.
[9] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, n. 73.
Di fondamentale importanza è che i presbiteri «conservino un contatto assiduo con le Scritture attraverso la lettura spirituale e uno studio accurato, affinché non diventi vano predicatore della Parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta dentro di sé»[10]. I presbiteri dovranno accostarsi alla Parola con cuore orante e docile, affinché si generi in loro una mentalità nuova: le loro parole, le loro scelte e persino i loro atteggiamenti siano sempre più una trasparenza, un annuncio e una testimonianza del Vangelo: «Solo rimanendo nella Parola il sacerdote diventerà perfetto discepolo del Signore, conoscerà la verità e sarà veramente libero»[11].
[10] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 25.
[11] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, n. 80.
Al servizio della Parola si dovranno dedicare, con grande impegno, i diaconi, sia quelli che successivamente saranno eletti al presbiterato, sia quelli che sono ordinati in maniera permanente. Un «elemento caratterizzante la spiritualità diaconale è la Parola di Dio, di cui il diacono è chiamato ad essere autorevole annunciatore, credendo ciò che proclama, insegnando ciò che crede, vivendo ciò che insegna»[12]. Sia valorizzata, nella nostra Diocesi, la figura del diacono, facendogli svolgere per intero il ministero per cui è stato ordinato: egli, infatti, non è solo proclamatore del Vangelo durante la celebrazione, ma può e deve spiegarlo con omelie ben preparate e adeguate all’uditorio; partecipa al culto divino presiedendo alcuni Sacramenti, come il Battesimo o il Matrimonio; presiede il rito delle esequie; inoltre si dedica alla catechesi, promuove e sostiene la Caritas parrocchiale. Non manchino i diaconi di vivere appieno la vita delle comunità alle quali sono inviati.
[12] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, n. 81.
Ruolo decisivo svolge la Parola di Dio nei candidati all’Ordine sacro. I nostri seminaristi devono imparare ad amare la Parola: sia la Scrittura l’anima della loro formazione umana e spirituale anche nei momenti che essi sono chiamati a vivere nella nostra Diocesi, fuori dal seminario, quando sono mandati a svolgere il loro tirocinio pastorale. Sarebbe utile che partecipassero nel periodo estivo a qualche settimana biblica o la si creasse in Diocesi: sicuramente sarebbe un valido aiuto per la loro formazione biblica.
Importantissima è la Parola di Dio per i consacrati. La vita consacrata nasce dalla Parola e accoglie il Vangelo come sua norma di vita. Vivere nella sequela di Cristo casto, povero e obbediente diventa un’esegesi vivente della Parola di Dio. I religiosi e le religiose, che sono a servizio della Chiesa locale, i consacrati e le consacrate laici siano sempre più testimoni dell’amore di Cristo: essi, in un mondo come quello di oggi troppo assorbito dagli interessi materiali, ricordino a tutti, con la loro vita di preghiera, di ascolto e di servizio che «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
Compito decisivo svolge la Parola di Dio per tutti i fedeli laici. Essi sono impegnati nella diffusione del Vangelo nei vari ambiti della vita quotidiana, nel lavoro, nella scuola, nella famiglia e nell’educazione. Questa missione, che deriva dal Battesimo, deve svilupparsi attraverso una vita cristiana sempre più consapevole e coerente, per poter rendere ragione della speranza che è in loro (cfr. 1Pt 3,15). Per questo essi hanno bisogno di essere formati a discernere la volontà di Dio mediante una familiarità con la Sua Parola, letta, meditata e studiata nella Chiesa, sotto la guida dei legittimi pastori.
Un impegno particolare la Diocesi dovrà svolgere nell’aiutare a comprendere il rapporto esistente tra la Parola di Dio, il Matrimonio e la famiglia cristiana. Pertanto, non si deve mai perdere di vista che la Parola sta all’origine del Matrimonio (cfr. Gen 2,24) e che Gesù stesso ha voluto includere il Matrimonio tra le istituzioni del suo Regno, elevando a Sacramento quanto era iscritto nella natura umana (cfr. Mt 19,4-8). Dal grande mistero nuziale deriva, poi, una imprescindibile responsabilità dei genitori nei confronti dei loro figli. Appartiene, infatti, all’autentica paternità e maternità la comunicazione e la testimonianza del senso della vita in Cristo: attraverso la fedeltà e l’unità della vita di famiglia gli sposi siano davanti ai propri figli i primi annunciatori e testimoni della Parola di Dio. La stessa responsabilità appartiene ai genitori che vivono situazioni matrimoniali irregolari.
La pastorale diocesana dovrà insistere su un approccio orante, da parte di tutti, al testo sacro, inteso come elemento fondamentale della vita spirituale di ogni credente. L’esperienza già avviata a livello diocesano della Lectio Divina dovrà essere incrementata a tutti i livelli: mediante la lettura del testo, la meditazione, l’orazione e la contemplazione si giungerà ad una visione sapienziale della realtà secondo Dio. Dalla lettura orante della Parola scaturirà, poi, con certezza in tutti il desiderio di una azione profondamente cristiana, che muoverà l’esistenza del credente a farsi dono per gli altri nella carità.
Occorre ribadire con forza che la nostra Chiesa, proprio partendo dal fondamento costitutivo della Parola di Dio, dovrà presentarsi sempre più, nel contesto culturale odierno, come soggetto e oggetto della evangelizzazione. La Chiesa è popolo in cammino verso Dio; per tale ragione è bene ricordare che «in virtù del Battesimo ricevuto ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr. Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione»[13]. È quanto mai urgente far prendere coscienza di questa missione a tutti i membri della nostra Chiesa locale. Essi, inoltre, in quanto oggetto dell’evangelizzazione, dovranno lasciarsi educare costantemente nella fede: solo così potranno diventare testimoni e annunciatori delle meraviglie compiute da Dio in Cristo Gesù.
[13] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 120.
Nel contesto di un profondo rinnovamento missionario la diffusione della Parola di Dio compete a tutti come impegno quotidiano. Ciò vuol dire portare il Vangelo alle persone con cui ogni giorno si è a contatto, ma anche agli sconosciuti. È la cosiddetta “Predicazione informale”, che si realizza anzitutto attraverso il dialogo da persona a persona al fine di comunicare l’amore di Cristo in qualsiasi luogo, in ogni occasione della vita, nel lavoro e per le strade[14]. Senza dimenticare, poi, che l’annuncio del Vangelo non si può trasmettere solamente con formule o parole prestabilite, ma che esistono forme diverse per la trasmissione della fede, spesso impossibili da catalogare ed elencare, occorre costantemente avere a mente che il Vangelo si incarna nella cultura di un popolo. La nostra Chiesa, pertanto, dovrà sforzarsi con ogni energia e audacia, senza dubbi e timori, affinché l’evangelizzazione provochi una nuova sintesi con la cultura in cui viviamo, per evitare di diventare spettatori inermi di una sterile stagnazione della Chiesa stessa. Per questo si rende necessario che ogni impegno (sociale, culturale, di volontariato e di carità), che il fedele cristiano porta avanti con amore nella società, non sia sterile esercizio di solidarismo umano, ma venga fatto nel nome di Cristo fondamento unico della nostra vita.
[14] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 127.
Il giorno del Signore è il momento in cui la Chiesa si raccoglie in assemblea convocata dal Risorto e riunita nel Suo Spirito. La comunità riunita nella fede e nella carità è segno della presenza del Signore in mezzo ai suoi: nel segno umile, ma vero, del convenire “in unum” (Cfr. 1 Cor 11,20), nel ritrovarsi dei molti nell’unità di «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32), si manifesta l’unità di quel corpo misterioso di Cristo, che è la Chiesa. La celebrazione della domenica è per la Chiesa un segno di fedeltà al suo Signore, di gioia, di fraternità e condivisione con i poveri. La vita di ogni Parrocchia ha il suo centro nel giorno del Signore e l’Eucaristia è il cuore della domenica. Dobbiamo custodire la domenica e la domenica custodirà noi e le nostre Parrocchie, orientandone il cammino e nutrendone la vita. Il modo in cui viene vissuto il giorno del Signore e celebrata l’Eucaristia domenicale deve far crescere nei fedeli un animo apostolico, aperto alla condivisione della fede, generoso nel servizio della carità, pronto a rendere ragione della speranza. È necessario ripresentare la domenica in tutta la sua ricchezza. Essa è:
Queste dimensioni della domenica sono oggi in vario modo minacciate dalla cultura diffusa; in particolare, l’organizzazione del lavoro e i fenomeni nuovi di mobilità agiscono da fattori disgreganti la comunità e giungono a precludere la possibilità di vivere la domenica e gli altri giorni festivi. La Parrocchia, che condivide la vita quotidiana delle persone, deve reinserire in se stessa il vero senso della liturgia domenicale, che apre lo sguardo al trascendente. Si attuerà, così, il “flusso – riflusso” tra la celebrazione e il vissuto quotidiano; avverrà che «la vita entra nella liturgia e la rende viva; la liturgia entra nella vita e la rende santa, cioè la trasforma»[18].
[18] M. Magrassi, La partecipazione attiva dei fedeli alla divina liturgia, fondamenti teologico-liturgici, La Scala 42 (1988), p. 361.
Luogo privilegiato della proclamazione viva e operante della Parola di Dio è la liturgia. Ogni azione liturgica è per sua natura intrisa di Sacra Scrittura. «Nella celebrazione eucaristica la Sacra Scrittura ha un’importanza estrema. Da essa si attingono le letture, che poi vengono spiegate nell’omelia, e i salmi, che si cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa, infine, prendono significato le azioni e i simboli liturgici»[19]. «La Parola di Dio, costantemente annunziata nella liturgia, è sempre viva ed efficace per la potenza dello Spirito Santo e manifesta l’amore del Padre, che mai cessa di operare a favore di tutti gli uomini. La Chiesa ha sempre mostrato la consapevolezza che nell’azione liturgica la Parola di Dio si accompagna all’azione dello Spirito Santo, che la rende operante nel cuore dei fedeli: è lo stesso Spirito che a ciascuno nell’intimo suggerisce tutto ciò che nella proclamazione viene detto per tutta l’assemblea dei fedeli, e mentre rinsalda l’unità di tutti, favorisce anche la diversità dei carismi e ne valorizza la molteplice azione»[20]. La liturgia realizza, così, l’attualizzazione perfetta dei testi biblici, ne situa la proclamazione nella comunità dei credenti riuniti intorno a Cristo. Egli è allora «presente nella sua Parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura»[21]. Chi proclama la Parola in ambito liturgico deve, dunque, essere adeguatamente preparato: egli non parla di sé, né racconta fatti della sua vita, ma presta la sua voce a Cristo che parla. Inoltre, è necessario rendere pienamente consapevoli coloro che svolgono il ministero di lettori e i diaconi, che annunciano il Vangelo, che attraverso di loro e per opera dello Spirito un testo scritto diventa nuovamente Parola viva ed efficace.
[19] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 24.
[20] Cfr. Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, n. 52.
[21] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 7.
Il luogo per eccellenza della Parola è l’Ambone, dal quale essa viene proclamata in Persona Christi al Popolo di Dio riunito. L’Ambone deve essere un luogo eminente, addobbato la Domenica e nelle feste, e curato con ogni onore anche quando non viene proclamata la Parola. Si disponga l’Ambone affinché la Parola possa essere esposta alla personale preghiera e lettura anche fuori dalla Liturgia.
Uno dei compiti fondamentali della nostra Chiesa di Oppido Mamertina-Palmi è quello di recuperare e vivere il vero senso della liturgia cristiana, che, lungi dall’essere considerata una forma di estetismo ecclesiastico o di mero rubricismo, dovrà tornare a splendere come «l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo»[22]. Sarà cura soprattutto dei sacri ministri aiutare tutti a ridare il giusto valore alla liturgia, facendola emergere da quella marginalità verso la quale sembra inesorabilmente precipitare e recuperare centralità nella fede e nella spiritualità dei credenti. Per questo motivo gli stessi pastori d’anime dovranno essere impregnati dello spirito e della forza della liturgia per poterne diventare maestri: si rende, dunque, assolutamente necessario nella formazione permanente del nostro clero dare il primo posto all’approfondimento in materia liturgica[23].
[22] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 7.
[23] Cfr. Ibidem, n. 14.
Pur ammettendo che la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa, essa, in quanto opera di Cristo Sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa, «è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado»[24]. Essa, inoltre, è «partecipazione, per anticipazione, alla liturgia celeste»[25], «culmine e fonte della vita della Chiesa»[26], «prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano»[27], contribuisce in sommo grado a che «i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa»[28]. «Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alle quali tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa»[29]. Questa è la vera idea di liturgia che noi dobbiamo coltivare e promuovere anche nella nostra Diocesi. Possiamo conseguentemente comprendere quale deve essere il criterio pastorale fondamentale da perseguire: la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia. Senza di essa, che non è una benevola concessione a far comprendere ciò che avviene, bensì un loro diritto e un loro dovere in forza del Battesimo, i fedeli vengono defraudati e la liturgia esce impoverita nel suo valore assoluto.
[24] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 7.
[25] Ibidem, n. 8.
[26] Ibidem, n. 10.
[27] Ibidem, n. 14.
[28] Ibidem, n. 2.
[29] Ibidem, n. 10.
La bellezza e l’importanza della liturgia è data dalla garanzia della presenza di Gesù in mezzo ai suoi. È Lui il liturgo, il sacerdote; Lui è l’altare e la vittima. Per questo ogni azione liturgica è anzitutto consapevolezza della presenza operante di Cristo fino alla fine dei tempi. Egli, infatti, è presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro sia, soprattutto, nelle specie eucaristiche; è presente nei Sacramenti; è presente, infine, quando l’assemblea riunita prega e loda Lui, che ha promesso: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Cfr. Mt 18, 15-20). Attraverso la liturgia si contempla la continuità tra l’opera salvifica di Cristo e la Chiesa. Questa, infatti, è associata al Redentore come sua sposa amatissima, che invoca Gesù come suo Signore e per mezzo di Lui rende il culto all’eterno Padre. Emerge così la duplice dimensione della vita liturgica: nella sua dimensione discendente la liturgia, in quanto attuazione della salvezza, è santificazione dell’uomo; nella sua dimensione ascendente è azione del popolo santo di Dio, cioè lode somma a Colui che ci ha amati, redenti e santificati. Da tutto questo ne deriva che l’impegno a celebrare con reale consapevolezza e dignità i riti liturgici non dipende solo da chi presiede il rito, ma coinvolge imprescindibilmente l’intera assemblea. Perciò si rende necessario in maniera assoluta che l’aspetto della formazione liturgica sia inserito con priorità nella catechesi dell’intero popolo di Dio. «I pastori d’anime curino con zelo e con pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, sia interna che esterna, secondo la loro età, condizione, genere di vita e cultura religiosa. Assolveranno così ad uno dei principali doveri del fedele dispensatore dei misteri di Dio. E in questo campo cerchino di guidare il loro gregge non solo con la parola, ma anche con l’esempio»[30].
[30] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 19.
La bellezza della liturgia si basa sulla nobile semplicità. «La bellezza non è quella seducente, che allontana dalla vera meta cui tende il nostro cuore inquieto: è invece la “bellezza tanto antica e tanto nuova” che Agostino confessa come oggetto del suo amore purificato dalla conversione: la bellezza di Dio […]. È la bellezza di fronte alla quale “l’animo avverte una certa nobile elevazione al di sopra della semplice predisposizione al piacere sensibile” (Immanuel Kant, Critica del giudizio, § 59). Non si tratta quindi di una proprietà soltanto formale ed esteriore, ma di quel momento dell’essere a cui alludono termini come gloria (la parola biblica che meglio dice la bellezza di Dio in quanto manifestata a noi), splendore, fascino: è ciò che suscita attrazione gioiosa, sorpresa gradita, dedizione fervida, innamoramento, entusiasmo; è ciò che l’amore scopre nella persona amata, quella persona che si intuisce come degna del dono di sé, per la quale si è pronti a uscire da noi stessi e giocarsi con scioltezza»[31]. Possiamo, dunque, affermare che la liturgia è bella non quando diventa ricercatezza oltremodo fantasiosa, sfilata di moda, danza intorno al vitello d’oro che siamo noi, ma quando rivela la bellezza stessa di Dio, la sua carità. Per salvaguardare la bellezza liturgica è necessario evitare nelle nostre comunità la sciatteria, il disordine, la sporcizia e l’impresentabilità delle vesti liturgiche, dei vasi sacri, l’arte mediocre, il canto ripetitivo e senza vita, la frettolosità e la calcolabilità del tempo. La bellezza della liturgia ci ricorda che essa non dipende da noi, dai nostri gusti, dalle nostre predisposizioni, ma dipende unicamente dalla presenza di Dio, che si manifesta nella sua semplicità e nella sua solennità come si mostrò a Mosè nel roveto ardente. La bellezza nel culto è quindi non arbitrarietà, ma umile obbedienza al rito romano. Agli operatori liturgici si rivolge, dunque, un unico e pressante invito: fate solo e tutto ciò che è scritto nel rito, poiché esso non è una gabbia che imprigiona, ma il modo con cui siamo raggiunti da Dio per essere santificati ed è il modo comunitario con cui la Chiesa rende culto al Padre. Così afferma la Sacrosanctum Concilium quando vuole spiegare come si entra nel mistero di Cristo: «Per ritus et preces»[32]. Sì, attraverso i riti e le preghiere della Chiesa si entra nel mistero di Cristo, per diventare veri adoratori del Padre.
[31] C. M. Martini, Lettera pastorale alla Chiesa di Milano. Quale bellezza salverà il mondo?, Milano 1999.
[32] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 48.
La bellezza delle celebrazioni eucaristiche domenicali e festive va curata in modo particolare: anche i segni e i gesti esteriori sono indicativi della presenza di Dio e non possono essere intesi come una costruzione umana o lo sfogo dell’egocentrismo di chi presiede l’assemblea liturgica. I segni e i gesti siano, dunque, veri e non artefatti, dignitosi ed espressivi, perché possano aiutare a cogliere le profondità del mistero che nascondono. La celebrazione ha un ritmo che non tollera né fretta né lungaggine e chiede equilibrio tra parola, canto e silenzio. Cosa mostrerà della bellezza di Dio una comunità dove la liturgia disdegna il silenzio e dove il cronometro diventa la preoccupazione fondamentale? Cosa mostrerà di Dio che si rivela e davanti al quale si sta alla sua presenza un celebrante che non ricorda più cosa siano le mani giunte o che a stento rende percepibile che le sue braccia allargate sono il segno del perenne atteggiamento orante del popolo santo di Dio? Cosa percepiranno di Dio presente in mezzo al suo popolo i nostri fedeli se fare un inchino al nome di Gesù diventa per alcuni quasi un “abominio” o se inginocchiarsi è diventato un optional, persino da molti sconsigliato? Come si pretende che sia evangelizzatrice una liturgia dove le troppe parole tolgono il fiato alla Parola, dove viene tacciato come mero ritualismo inchinarsi alle parole della consacrazione pur di mostrare il pane e il calice in maniera quasi teatrale, invece di riconoscere che quelle parole sono santissime e per questo si china il capo pronunciandole? Cosa mostrerà della bellezza di Dio e come aiuterà i credenti a percepirne la presenza una liturgia dove anche i presbiteri, qualche volta, trasformano le celebrazioni in un set cinematografico, dove il telefonino cede il posto a qualsiasi esigenza di orazione pur di pubblicare, mentre ancora si sta officiando, l’ultimo scatto sensazionale, o dove la processione d’ingresso invece di manifestare l’Incarnazione di Cristo in mezzo al suo popolo sembra trasformarsi in una passerella dove saluti e scambi di parole non contribuiscono certo a entrare nello spirito vero della liturgia? Tutto questo è sufficiente per aiutarci a comprendere quale grande cambiamento di passo occorre fare nella nostra Chiesa diocesana perché la liturgia torni a essere veramente Epifania di Dio.
Grande importanza ha nella celebrazione liturgica il rispetto del sacro silenzio. Esso non è un inutile momento di pausa ma è vera e propria liturgia e, come tale, parte integrante della celebrazione[33]. Sia, dunque, osservato laddove è previsto e anche dove è raccomandato: durante l’atto penitenziale; dopo ogni invito alla preghiera; dopo l’omelia. Prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in Chiesa e in sagrestia o nel luogo dove i ministri si vestono dei paramenti[34]. Perché sia bene celebrata la liturgia della Parola si deve evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento. È necessario che il silenzio liturgico venga colto non come una disciplina esteriore, ma come un necessario momento di apertura al mistero. Brevi momenti di silenzio, dunque, si osserveranno: prima che inizi la stessa liturgia della Parola; dopo la prima lettura; dopo la seconda lettura[35]. Quando durante la celebrazione eucaristica è inserita la Preghiera universale, dopo la proposta di tutte le intenzioni e prima dell’orazione conclusiva si osserverà il silenzio[36]. Dopo la Benedizione conclusiva della Celebrazione Eucaristica è opportuno che i fedeli rimangano al proprio posto, accompagnando con il silenzio o canto finale il celebrante fino all’ingresso nella sagrestia.
[33] Cfr. Ordinamento generale del Messale Romano, n. 45.
[34] Cfr. Ibidem, n. 45.
[35] Cfr. Ibidem, n. 56.
[36] Cfr. CEI, Orazionale per la Preghiera universale, Premessa n. 2 e p. 12.
È necessario ricordare e cercare di applicare pedissequamente nelle nostre comunità che: «regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo (C.I.C. can. 838)»[37]. Il presbitero, «in tale materia, non aggiungerà, toglierà o muterà alcunché di sua iniziativa. Questo vale in particolar modo per la celebrazione dei Sacramenti, che sono per eccellenza atti di Cristo e della Chiesa, e che il sacerdote amministra in persona di Cristo Capo e a nome della Chiesa per il bene dei fedeli. Questi hanno un vero diritto a partecipare alle celebrazioni liturgiche così come vuole la Chiesa e non secondo i gusti personali del singolo ministro e neppure secondo particolarismi rituali non approvati»[38].
[37] Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei Presbiteri, n. 59.
[38] Ibidem.
L’Eucaristia e tutti gli altri Sacramenti siano celebrati con i libri liturgici approvati dalle competenti autorità. Non è dignitoso che un ministro celebri la liturgia attraverso i foglietti domenicali o altri sussidi che non corrispondono ai rituali promulgati. È assolutamente inopportuno, soprattutto, proclamare la Parola di Dio da foglietti volanti.
Poiché la liturgia non può essere minimamente soggetta a improvvisazioni è necessario che in ogni Parrocchia sia data vita ai Gruppi liturgici con il compito di preparare e animare le singole azioni liturgiche, soprattutto quelle domenicali. A tale proposito, siano valorizzati i diversi ministeri (lettori, accoliti, ministranti), sia favorita e svolta nella semplicità la processione offertoriale e, nella scelta dei canti, ci si attenga a criteri oggettivi, derivanti dai temi della Parola proclamata o della festa vissuta, e non a gusti personali.
Coloro i quali sono chiamati al sacerdozio ministeriale, siano essi diocesani o religiosi, i diaconi, permanenti o transeunti, i seminaristi, candidati all’Ordine sacro, dovranno, nella nostra Diocesi, crescere sempre più nella consapevolezza che l’approfondimento della coscienza di essere ministri è di grande importanza per la vita spirituale e per l’efficacia del loro stesso ministero[39]. La coscienza di essere ministro comporta anche la coscienza dell’agire in maniera organica nel Corpo di Cristo. Tutto ciò esige regole e leggi di condotta che devono essere rispettate al fine di evitare contraddizioni e contro-testimonianze che comprometterebbero lo sforzo pastorale unitario, di cui la nostra Chiesa diocesana ha bisogno, per svolgere in maniera efficace la sua missione evangelizzatrice. Tra tutte queste regole e leggi meritano particolare rilievo le ultime disposizioni liturgiche della nostra Chiesa, che hanno lo scopo di ordinare il culto in accordo con la volontà di Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, e della Chiesa universale, Suo Mistico Corpo. Per cui, espressioni liturgiche soggettivistiche, improvvisazioni fantasiose, disobbedienze alle norme nelle celebrazioni eucaristiche costituiscono motivi gravi che mettono a rischio l’essenza stessa della dimensione liturgica.
[39] Cfr. Congregazione per il Clero, Istruzione Il Presbitero, pastore e guida della comunità parrocchiale, n. 21.
Tutti i ministri sacri, specialmente i presbiteri, devono avere come fondamentale preoccupazione quella di dare il giusto risalto alla proprietà e alla pulizia del luogo della celebrazione, all’architettura e al decoro dell’altare e del tabernacolo (si ricorda che ogni eventuale modifica va concordata con l’Ufficio tecnico della Diocesi), alla nobiltà degli oggetti sacri, alla cura del canto e della musica sacra, all’uso dell’incenso nelle celebrazioni solenni. Abbiano, inoltre, cura che le vesti liturgiche siano belle e decorose sia per la loro forma e per la materia usata che per la ricchezza dell’ornato. In riferimento a quest’ultime è da ricordare che non esiste nessuna scelta arbitraria di celebrare con la sola stola. Ai concelebranti in una solennità liturgica è data la possibilità, in presenza di una giusta causa (come ad esempio il numero elevato di concelebranti e la mancanza di paramenti) di poter omettere la casula, facendo uso della sola stola sopra il camice.
Per quanto concerne il rapporto tra pietà popolare e liturgia sia sottolineato il valore primario e salvifico della seconda rispetto alla prima. La liturgia resta il criterio ispirativo della pietà popolare e le diverse forme di quest’ultima non soppiantino per nessuna ragione il culto liturgico. Da questo Sinodo nasce l’invito a riprendere in mano i decreti vescovili riguardanti tale materia e di farne oggetto di seria verifica per eventuali correzioni o conferme. Perché, poi, sia garantito un giusto e solido rapporto tra pietà popolare e liturgia si propone di istituire, all’interno dell’Ufficio Liturgico Diocesano, la sezione riguardante proprio la pietà popolare dove possano trovare spazio e rappresentanza anche le espressioni più genuine di religiosità presenti nel territorio della Diocesi quali Confraternite ed Associazioni.
La Parola di Dio è un dono e il suo ascolto apre il cuore ed illumina la vita rispetto alla ricchezza d’amore che Cristo offre gratuitamente a ciascuno e a tutti gli uomini. L’ascolto non è solo una raccolta di informazioni, né una strategia per raggiungere un obiettivo, ma è la forma attraverso la quale Dio stesso si apre e si dona al suo popolo; è lo stile di Dio che comporta un’apertura che vada oltre il proprio recinto. La disposizione dell’uomo all’ascolto della Parola è dunque risposta a quest’amore: è partecipazione personale e comunitaria a questo stile che accoglie, include. L’ascolto sia attualizzato attraverso varie iniziative quali:
l’omelia, in particolare, diventi un momento privilegiato per approfondire la Parola, calata nel contesto che si ha di fronte, meditata, comprensibile e fatta con semplicità. Essa, secondo le indicazioni di Papa Francesco, sia breve.
L’ascolto è condizione essenziale e primaria nella vita della Chiesa per stabilire relazioni autentiche, vive, cordiali e rispettose con le persone. Ascoltare l’altro significa accoglierlo per farlo sentire coinvolto, amato, desiderato ed aiutato. L’ascolto è un incontro tra libertà, pazienza, disponibilità ed impegno per elaborare nuove risposte alle necessità dei fedeli. Saper ascoltare significa assumere l’atteggiamento di Gesù, sia per quanto riguarda l’attenzione e l’accoglienza, sia per quanto riguarda l’ascolto della parola del Padre e l’obbedienza alla sua volontà. L’accoglienza permette di sperimentare l’incontro comunitario con il Dio Vivente, permette di camminare insieme ai fratelli e rende visibile l’Amore e l’Unità secondo il volere di Dio. Il discepolo è chiamato a testimoniare questo incontro, accogliendo, sostenendo, ospitando e creando legami di fraternità. Si ascolta custodendo il silenzio per “scavare” nel profondo di noi stessi e per fare abitare l’altro in noi. Ascoltare è aprire il cuore alla gioia, alla gratitudine, alla misericordia, alla preghiera, è spogliarsi dei problemi personali, dimenticando l’orologio e non preoccupandosi delle risposte da dare e delle soluzioni da trovare. L’ascolto diventa così un vero atto di conversione richiesto alla nostra Diocesi.
Dall’ascolto nasce la fraternità che deve partire soprattutto dai presbiteri e dai diaconi, i quali devono essere capaci di riconoscere le diversità, di accogliere tutte le voci ed i carismi presenti in Parrocchia, di coinvolgere le famiglie, le coppie, gli anziani, i giovani, i bambini in un unico ed articolato cammino di verità e di fede. Particolare attenzione va rivolta a quelle famiglie che hanno sofferto dolorose separazioni o divorzi che spesso sono stati conseguenza di liti anche giudiziarie e violenze sia tra i coniugi che nei confronti dei giovani e dei bambini. Occorre saper ascoltare ed accogliere chi intende percorrere un cammino di riconciliazione nella fede piuttosto che limitarsi a sterili e dannose condanne che continuano a creare insormontabili steccati tra il popolo di Dio e la Chiesa.
Ascoltare non significa semplicemente “sentire”. Si ascolta custodendo il silenzio in un atteggiamento attivo, entrando in sintonia con il sentire dell’altro cercando di cogliere la sua prospettiva. Ascoltare è aprire il cuore al non giudizio, alla misericordia e alla preghiera, alla gioia, alla gratitudine, richiede l’essere umili e discreti, senza la pretesa di dare sempre una risposta: non siamo noi che dobbiamo salvare il mondo, siamo semplici, ma necessari strumenti nelle mani di Dio. L’ascolto esige impegno, richiede calma, concentrazione, intuizione, lettura dei messaggi non verbali, discernimento. Ascoltare è spogliarsi dei problemi personali non preoccupandosi delle risposte da dare e delle soluzioni da trovare. L’ascolto non è fine a sé stesso, ma porta al dialogo chiaro, onesto, adeguato alle reali possibilità di comprensione dell’altro.
La nostra Diocesi è chiamata a promuovere e concretizzare questo dialogo attraverso percorsi spirituali, umani e culturali coraggiosi, capaci di ascolto e di confronto con l’uomo del nostro tempo senza scendere a riduzionismi sommari e a pregiudizi che il più delle volte impediscono il dialogo, l’accoglienza e la vera comunione. La nostra Chiesa esca dall’autoreferenzialità e dai propri confini, senza aver paura di incontrare l’altro. Per questo è necessario far crescere il senso di appartenenza, la conoscenza reciproca, la comunicazione e la comunione tra le varie realtà e persone all’interno delle parrocchie lavorando per l’inclusione, la collaborazione fraterna, pur nella legittima diversità dei propri carismi, che devono diventare ricchezza e non ostacolo. Ascoltare è imparare a camminare insieme sia come comunità cristiana che con chi, nel mondo, vuole fare tratti di cammino insieme per il bene dell’umanità.
I segni dei tempi costituiscono sollecitazioni per le comunità ecclesiali nell’operare una loro lettura e discernimento in vista di risposte salvifiche con uno sguardo specifico a quelli che rivelano la presenza di Dio. La nostra Chiesa diocesana deve rispondere ai perenni interrogativi dell’uomo sulla vita presente e futura a partire dalla sua articolata Tradizione, dalla fede, dall’azione dello Spirito Santo. La fede non può sostituire lo studio e l’interpretazione degli eventi, ma li rende possibili in una prospettiva diversa. Non bisogna ridurre i segni dei tempi a puri indicatori sociali, fenomenici, senza una carica profetica o una connessione intrinseca con la rivelazione cristiana. Il ricorso alla categoria segni dei tempi non può essere dettato da un opportunismo pastorale ma deve essere un incarnare la Parola di Dio nella storia.
La Chiesa diocesana è chiamata a concentrarsi sugli avvenimenti che hanno carattere di fenomeno diffuso nella coscienza collettiva della nostra Piana: crisi della famiglia, usura, economia distorta, lavoro nero, ‘ndrangheta, massoneria, politica corrotta, arrivismo, dipendenze, emergenza lavorativa e sanitaria… Il contesto culturale attuale nella nostra Piana assume una forma originale e spesso preoccupante. Infatti, movimenti di pensiero e sub culture morali molto facilmente si presentano come appetibili e diventano modo di pensare comune di diverse fasce sociali. A tutto ciò va aggiunta la diffusione massiccia ed invasiva della tecnologia in una vita sempre più iperconnessa e globalizzata con rischi di perdita di identità personale e comunitaria.
Questa cultura massificata manifesta delle esigenze non espresse. Anche questi segni vanno interpretati e compresi nella loro essenza, che spesso è sintomo di situazioni di sofferenza e di disagio esistenziale. All’analisi attenta dei fenomeni deve fare seguito un progetto pastorale che pone al centro del suo agire i valori del Vangelo e la giustizia che da essi deriva.
La Chiesa diocesana ha la responsabilità di garantire un annuncio che sia fedele al Vangelo, al Magistero della Chiesa e alla Tradizione. Il Concilio Vaticano II ci ricorda che questo compito è un processo complesso che coinvolge la fede e la vita di ogni cristiano. Non si possono inventare dottrine e opinioni personali che vadano contro o siano in disaccordo con il Papa e con la tradizione millenaria della nostra fede: sono necessari, dunque, fedeltà a Dio, all’uomo, al Magistero e alla Dottrina della Chiesa. Nel processo di annuncio ed ascolto i documenti conciliari siano punto di riferimento costante, base della Nuova Evangelizzazione.
La presenza della parrocchia nel territorio, in quanto Chiesa che vive tra le case degli uomini, manifesta sollecitudine verso i più deboli, farsi carico degli emarginati, dei poveri, dei malati, dei giovani, delle famiglie in difficoltà, dei minori disagiati, vittime di violenza fisica e psicologica, degli anziani, delle persone sole e dei migranti. Il suo radicamento nel
territorio si esprime anche nel servizio che essa deve rendere alla gente per aiutarla ad affrontare, con sguardo evangelico, il discernimento dei fenomeni culturali che orientano la vita sociale. Il dialogo con le persone sarà fecondo se saprà articolare e usare codici e linguaggi della nuova cultura dei media, alla luce dell’antropologia cristiana.
Bisogna improntare il nostro modo di fare Chiesa e di essere Chiesa sullo stile proposto da Papa Francesco, aperto all’evangelizzazione nelle strade; curare lo spirito di servizio e di motivazione nello svolgimento di ruoli e ministeri, superando la tentazione di protagonismi personali o competizioni e lavorando in modo che tutti i fedeli possano, attraverso la Parola, rapportarsi, collaborare e crescere per costruire unità e comunione, nel rispetto delle differenze.
La Chiesa diocesana deve essere capace di mettersi in discussione e avviare un processo di conversione attraverso un sereno e serio esame di coscienza, e non pensare che: “tanto si è sempre fatto così”! Una Chiesa che non ha paura di stare con i più deboli, che riesca ad alzare la voce davanti alle ingiustizie, che sappia creare opinioni e, soprattutto, sappia compiere gesti profetici.
Una Chiesa che entri nelle case: sacerdoti, diaconi, religiosi, catechisti, operatori parrocchiali, devono bussare alle porte delle case e, se qualcuno apre, ascoltare. Non basta più aprire le porte della chiesa e accogliere: occorre andare, annunciare, scuotere, così come Cristo ci ha insegnato. Ogni parrocchia sia missionaria nel suo territorio e soprattutto non sia autoreferenziale. La Chiesa deve situarsi nei diversi “territori” di vita della gente, per capirne i problemi e le possibilità. Non basta una lettura sociologica e culturale dei dati; occorre anche un’interpretazione evangelica ed ecclesiale. Tale compito riguarda tutti, ma soprattutto i Consigli Pastorali Parrocchiali, che devono essere effettivamente operanti, ed i gruppi presenti in Parrocchia, i quali per primi si devono svestire della chiusura nel proprio “isolotto”, valorizzando gli spazi del dialogo culturale e i mezzi di comunicazione sociale.
Nel territorio della Diocesi sono presenti scuole, realtà sanitarie, luoghi di lavoro, strutture sociali e gruppi di volontariato: la Parrocchia entri in dialogo e offra collaborazione, nel rispetto delle competenze, ma anche con la consapevolezza di avere un dono grande, il Vangelo, e risorse generose, gli stessi cristiani. Si dialoghi con le istituzioni amministrative, evitando tuttavia di diventare “parte” nella dialettica partitica. È necessaria una seria preparazione degli insegnanti della religione cattolica, in modo che siano presenti in maniera significativa nelle attività della Chiesa diocesana, della parrocchia e del territorio.
Le parrocchie, con il supporto della Diocesi, possono assumere un ruolo di mediazione nell’ambito del progetto culturale. Nella complessa realtà territoriale in cui viviamo è indispensabile sostenere la giustizia sociale, la legalità, il lavoro pulito e onesto ed il rispetto per l’ambiente; è necessario avere forza e coraggio per impegnarsi a debellare la cultura della sopraffazione (mafiosa, clientelare, dei privilegi di casta) da qualunque parte provenga.
La trasmissione dei contenuti di fede non è questione di insegnamento di dottrina, ma tirocinio di vita cristiana, fatto non da insegnanti istruiti ad hoc, ma da testimoni che provengono da ogni ambito della vita della comunità:
[1] Benigno L. Papa, Và e anche tu fa lo stesso (Lc. 10,37). Lettera Pastorale, pp. 69-70.
[2] Benigno L. Papa, Và e anche tu fa lo stesso (Lc. 10,37). Lettera Pastorale, pp. 72-73.
[3] Benigno L. Papa, Và e anche tu fa lo stesso (Lc. 10,37). Lettera Pastorale, pp. 74-75.
Nella pratica catechistica odierna il catechista è, di solito, un arruolato dell’ultimo momento, quasi sempre senza una sufficiente preparazione personale; a volte giovanissimo, quasi adolescente; per la maggior parte donne, perché sono loro ad essere, nel nostro ambiente, le più disponibili a questo tipo di ministero; inoltre è visto come un maestro che insegna. In realtà nella nostra Diocesi è fondamentale avere catechisti che siano testimoni-accompagnatori, figure a cui fare riferimento per facilitare la scoperta della vita cristiana a tutti coloro che si sono allontanati da Cristo o che Cristo lo conoscono per la prima volta. Essi si occupano dei ragazzi, ma anche degli adulti; lavorano non da soli, ma in équipe; fanno da tramite con la comunità stessa; non insegnano solamente, ma vivono ciò che insegnano, dando testimonianza concreta della loro fede.
La nostra Chiesa diocesana ha bisogno di catechisti-testimoni che incarnino la gioia dell’annuncio e diventino accompagnatori dei propri catechizzandi; per questo motivo i parroci scelgano giovani particolarmente sensibili per questa missione affinché, dopo un’adeguata e profonda formazione, possano assumere questo ruolo ministeriale servendo il Vangelo come chiamati e mandati dallo stesso Gesù. Laddove possibile si punti a formare anche coppie di sposi che si prendano a cuore l’iniziazione cristiana non solo dei loro figli, ma anche degli altri ragazzi affidati alle nostre comunità. Questa scelta si rende necessaria nelle nostre parrocchie dove gli operatori pastorali sono sempre di meno e, soprattutto, sempre le stesse persone che si occupano un po’ di tutto: è oltremodo necessario favorire un ricambio generazionale.
I catechisti siano ben preparati e operino con gratuità, dedizione, coerenza, secondo una spiritualità missionaria che li tenga lontani dallo “sterile affanno pastorale” e dall’individualismo. Devono avere una solida formazione ecclesiale, spirituale, biblica, dottrinale, comunicativa e pedagogica. A tal fine sarà cura dell’Ufficio Catechistico Diocesano, il quale ha tra i suoi «compiti principali la formazione dei catechisti e degli evangelizzatori»[4], formare al suo interno una consulta di presbiteri-parroci, diaconi, catechisti/e e di persone laiche esperte in campo pedagogico, che predispongano i mezzi necessari per la formazione, creando una rete di scambio tra tutti i catechisti con il supporto di esperti. «Assicurare la formazione specifica di base a tutti i catechisti è decisivo, sia mediante l’impegno delle parrocchie, sia di apposite scuole diocesane; non è da trascurare nemmeno l’attenzione alla circolazione delle buone pratiche e delle esperienze positive vissute nelle varie comunità. L’Ufficio Catechistico Diocesano curerà che la formazione in loco dei catechisti parrocchiali sia sempre in sintonia con il progetto diocesano. È pure compito dell’Ufficio Catechistico Diocesano predisporre occasioni e percorsi per una formazione più approfondita, anche in vista del conferimento del Mandato da parte del vescovo»[5]. Gli incontri di formazione diocesani per i catechisti e gli altri operatori pastorali siano delle scuole vere e proprie che formino annunciatori capaci di trasmettere la fede.
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù, Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, n. 88.
[2] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, n. 84.
I catechisti dovranno essere accompagnatori umili e rispettosi, agendo con lo stile di Gesù che li ha chiamati e mettendo in atto carattere di novità, di parresia e di gratuità. Il catechista è nello stesso tempo testimone della fede, maestro e mistagogo, accompagnatore e pedagogo che istruisce a nome della Chiesa. «Un’identità che solo mediante la preghiera, lo studio e la partecipazione diretta alla vita della comunità può svilupparsi con coerenza e responsabilità»[6]. «Il catechista è un cristiano che riceve la chiamata particolare di Dio, che, accolta nella fede, lo abilita al servizio e al compito dell’iniziare e del formare alla vita cristiana»[7].
[6] Pontificio Consiglio Per La Promozione Della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, n. 113.
[7] Pontificio Consiglio Per La Promozione Della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, n. 112.
Chi annuncia non è un maestro che impartisce lezioni, ma una persona che nella vita ha incontrato Cristo e lo vuole testimoniare con gioia, accostandosi all’altro con amorevolezza, nel rispetto della sua personalità. La Buona notizia si trasmette con la gioia non con la tristezza, perché la gioia avvicina, la tristezza allontana.
I catechisti devono essere educati al buon uso degli strumenti digitali per utilizzare i nuovi linguaggi di più immediata comprensione per i ragazzi ed i giovani, aiutandoli anche nella gestione dei mezzi di comunicazione sociale in maniera idonea e formativa.
Catechisti e parroci si trovano spesso in difficoltà perché prendono atto che il modo di fare catechesi con i fanciulli e i ragazzi non ottiene i risultati sperati. Una catechesi finalizzata esclusivamente alla ricezione dei sacramenti, pur avendo avuto strumenti nuovi nei testi catechistici della CEI, non ha prodotto ciò che si aspettava: i ragazzi scompaiono dalle Parrocchie dopo aver ricevuto la Cresima, i genitori sono quasi completamente assenti e disinteressati alla vita di fede dei loro figli, i catechisti vivono talvolta lo scoraggiamento. Cosa ancor più preoccupante scompare la vita cristiana nelle famiglie e le Parrocchie diventano luoghi in cui si cercano servizi religiosi generici, chiesti ancora solo per abitudine, per convenzione sociale o per altri motivi che poco hanno a che fare con la fede cristiana. Occorre, dunque, promuovere una conversione pastorale nella nostra Diocesi: al centro di questo rinnovamento va collocata la scelta di configurare la pastorale secondo il modello dell’Iniziazione Cristiana, che, intessendo tra loro testimonianza ed annuncio, itinerario catecumenale, sostegno permanente della fede mediante la catechesi, la vita sacramentale, la mistagogia e la testimonianza della carità, permette di arrivare alla maturazione di fede dei membri delle comunità e soprattutto di integrare tra loro le varie dimensioni della vita cristiana: conoscere, celebrare e vivere la fede, ricordando che costruisce la sua casa sulla roccia solo chi “ascolta” la parola di Gesù e la “mette in pratica” (cfr. Mt 7,24-27).
C’è l’urgenza di riorganizzare l’itinerario catechistico dell’iniziazione cristiana restituendogli la vera dignità. È necessario istituire linee guida comuni per tutta la Diocesi per diventare cristiani ed entrare nella comunità, evitando di fare proposte di “preparazione ai sacramenti” in maniera disomogenea e lasciata alla fantasia dei singoli parroci, che non sia a carattere scolastico, in riferimento ai tempi ed alla forma, e, inoltre, preveda il coinvolgimento attivo delle famiglie. In un mondo secolarizzato come il nostro è opportuno rivedere modi, tempi e proposte del percorso catechistico: dobbiamo mettere al centro l’annuncio, fatto con il cuore e testimoniato con la propria vita.
La catechesi risente ancora di una impostazione fortemente dottrinale, da qui la necessità di una diversa prassi catechistica che avvii il fanciullo ad inserirsi pian piano in un’esperienza complessiva di Chiesa, intesa come comunità in uscita per aiutarlo a crescere contemporaneamente come cristiano ed onesto cittadino: i concetti dottrinali non potranno essere in alcun modo messi da parte, ma verranno elaborati a partire dalla vita quotidiana, confrontata con il Vangelo. È necessario rafforzare e privilegiare l’offerta di esperienze e incontri con fatti concreti, adottando una pedagogia “esperienziale”.
È necessario coinvolgere i genitori ed aiutarli ad interrogarsi sul reale “perché” chiedono i Sacramenti per i loro figli. Cominciando, quindi, dalla preparazione al battesimo a loro rivolta, l’Ufficio Catechistico Diocesano proponga itinerari per educare le famiglie ad avviare i figli alla vita cristiana: tali itinerari dovrebbero essere propedeutici a quelli dei bambini e dei ragazzi. È, infatti, puramente velleitario pretendere dai ragazzi una scelta di vita cristiana che duri nel tempo e si approfondisca nella maturità di fede, oltre i sacramenti celebrati, senza la piena partecipazione della famiglia, che si mette in cammino con loro per andare incontro a Cristo, rinvigorire la fede e viverla tra le mura domestiche in maniera esplicita e consapevole, per poi testimoniarla all’esterno, aggregandosi visibilmente alla comunità parrocchiale, che diventa, così, famiglia di famiglie.
È opportuno lavorare perché tutta la comunità sia corresponsabile e partecipe nell’evangelizzazione e nell’iniziazione cristiana. Le comunità parrocchiali devono annunciare Cristo nel nostro territorio ed essere pronte ad accogliere coloro che lo Spirito Santo muove a conversione: il modello a cui ispirarsi per tale annuncio è quello catecumenale. Vano sarebbe predisporre cammini di catechesi ordinaria o di qualsiasi altra forma se la comunità cristiana tutta intera non si rendesse vicina a chi compie questo cammino: è lei la madre che genera e mai abbandona i suoi figli. A ciascun componente della comunità è affidato il compito di testimoniare, con le parole ed i fatti, il messaggio evangelico.
È necessario prendere coscienza della stretta correlazione che esiste tra catechesi, liturgia e carità. È quanto mai urgente che gli stessi Uffici pastorali diocesani lavorino in sinergia per avviare cammini di formazione comuni dove le tre dimensioni che costituiscono il vivere della comunità si completino tra di loro. È fuori luogo oggi un lavoro pastorale a compartimenti stagni perché ciò fa sì che le lacune che si verificano in una di queste tre dimensioni fondamentali della Chiesa finiscono per incidere sulle altre. In tal senso, l’iniziazione cristiana non può essere demandata esclusivamente all’ambito della catechesi per non correre il rischio di fare solo “preparazione dottrinale ai sacramenti”. Proprio per non cadere in questo equivoco è necessario considerare che è la comunità cristiana tutta, nelle sue tre dimensioni, che inizia alla fede. Senza la pratica della carità, l’annuncio e l’approfondimento della fede non ha credibilità e le celebrazioni liturgiche diventano vuota ritualità. Senza un’accurata catechesi, la liturgia non sarebbe compresa nei suoi segni sacramentali e la carità diventerebbe equivoca. Senza la liturgia degnamente celebrata, la catechesi rischia di apparire una ideologia e la carità una pratica filantropica. «Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa. E la carità, che è il dono per eccellenza dello Spirito […] struttura la Chiesa nel suo dinamismo interno e nell’esercizio della sua missione salvifica; plasma di sé la vita di fede, la realtà liturgica e sacramentale, la pratica della vita morale, l’attività pastorale»[8]. Serve dare maggiore spazio di azione e partecipazione a quanto gli Uffici pastorali diocesani propongono nei loro cammini di formazione sia in ciò che è comune ai tre settori e sia in quello che li differenzia. È importante che i parroci stimolino la partecipazione dei catechisti e degli operatori pastorali di settore. La necessità di uno stile di collaborazione, come strumento della nuova evangelizzazione, invita a «promuovere il dialogo, l’incontro e la collaborazione tra i diversi educatori; attivare e sostenere iniziative di formazione su progetti condivisi. Andranno pertanto anche incoraggiate occasioni formative cui possano partecipare insieme laici e presbiteri»[9].
[8] Benigno L. Papa, Và e anche tu fa lo stesso (Lc. 10,37). Lettera Pastorale, pp. 29.
[9] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù, Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, n. 86.
Nella catechesi per l’iniziazione cristiana è fondamentale porre attenzione ai ragazzi diversamente abili, i quali non si pongono solo come destinatari del messaggio evangelico, ma a loro volta annunciano il Vangelo; non sono solo oggetto di diritti e di attenzioni, ma soggetti attivi che possono a loro volta arricchirci. Bisogna assicurare ambienti idonei e dignitosi per le attività di catechesi e oratoriali in cui sono coinvolti, garantendo la loro inclusione.
L’iniziazione cristiana deve ritrovare unità attorno all’Eucaristia. È l’Eucaristia il sacramento che, continuamente offerto, non chiude un’esperienza, ma la rinnova ogni settimana, nel giorno del Signore. In prospettiva catecumenale, il cammino catechistico va scandito in tappe, con percorsi differenziati e integrati, ma anche salvaguardando l’unitarietà dell’iniziazione cristiana. Non tre sacramenti senza collegamento, ma un’unica azione di grazia: che parte dal Battesimo e attraverso la Cresima si compie nell’Eucarestia.
Riguardo al Sacramento della Cresima, una riflessione attenta va fatta sul ruolo dei padrini e delle madrine. Molti di loro non hanno consapevolezza del compito a cui sono chiamati.Le figure del padrino e della madrina sono spesso scelte con criteri e finalità diverse dalla loro reale funzione (parentela, amicizia, interesse), senza considerare lo specifico ruolo che il padrino o la madrina è chiamato a svolgere, ovvero trasmettere la fede, che deve testimoniare in prima persona. A proposito di padrini e madrine, il Codice di Diritto Canonico indica la possibilità della loro presenza, non l’obbligatorietà, precisando le qualità a loro richieste: “una vita conforme alla fede” (can. 872). Ecco perché si propone di rivedere i criteri di scelta dei padrini e delle madrine per il Sacramento della Cresima.
Tra i linguaggi espressivi della catechesi c’è la narrazione, definita “un modello comunicativo profondo ed efficace” perché in grado di intrecciare, in modo fecondo, la storia di Gesù, la fede e la vita degli uomini. Importante è poi l’arte che, tramite la contemplazione della bellezza, permette di fare esperienza dell’incontro con Dio; la musica, infine, soprattutto quella sacra, instilla nello spirito umano il desiderio di infinito.
Parlare di catechesi agli adulti significa, fondamentalmente, rivolgere la nostra attenzione alla famiglia. Non possiamo prescindere dalle famiglie, dalle coppie giovani o mature che hanno un bisogno grande di essere affiancate, sostenute e tante volte solo accolte. C’è la necessità e l’urgenza di una scelta formativa: lo stile e il cuore di questo annuncio deve essere la misericordia con una catechesi che parta dalle persone e tenga conto delle loro situazioni personali. È opportuno che l’Ufficio Catechistico Diocesano in collaborazione con l’Ufficio Pastorale Diocesano della famiglia predisponga itinerari da proporre negli incontri con e per le famiglie, magari a domicilio nelle loro case o con la costituzione di gruppi famiglie. «Molti Uffici catechistici diocesani hanno costituito e reso operante l’équipe diocesana per la catechesi degli adulti. La necessità di offrire una formazione cristiana sistematica agli adulti è stata sottolineata infine dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica (1992). Tutti questi avvenimenti e queste iniziative hanno contribuito senza dubbio a far crescere l’esigenza di una catechesi degli adulti più organica e sistematica»[10]. Dare unità ai percorsi parrocchiali dei vari gruppi con momenti di scambio di esperienze, preghiere, ascolto della Parola e catechesi diventa oggi una prerogativa imprescindibile.
[10] Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, n. 24.
Il variegato mondo della formazione degli adulti, in ambito ecclesiale, presenta sfaccettature molteplici che trovano una non facile unità intorno al polo della spiritualità. C’è bisogno di trovare occasioni e spazi dove incontrarsi, dove rispondere a quella domanda di relazionalità che è propria della vita dell’adulto, dove far nascere nuovi rapporti d’amicizia e individuare insieme punti di riferimento per la vita quotidiana. È necessario porre maggiore attenzione alle coppie di fidanzati nel loro cammino di affettività ed in preparazione al matrimonio con la presenza del sacerdote, guida spirituale, di esperti e soprattutto di famiglie della comunità, testimoni della bellezza di Dio, sacramento d’Amore e di comunione. Ci sia anche la cura verso le persone che vivono una “situazione irregolare”, attraverso itinerari di accompagnamento e discernimento per «far sentire che sono parte della Chiesa, che non sono “scomunicati” e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale»[11].
[11] Francesco, Esortazione Apostolica Postsinodale Amoris Laetitia, n. 243.
Costruire itinerari non a partire dai contenuti, ma dalle persone. È facile infatti riconoscere che la più grande difficoltà è riuscire ad arrivare alle persone, coinvolgerle, affascinarle. Potrebbero essere valorizzate, anzitutto, le occasioni offerte dall’esistenza, soprattutto i momenti forti attraverso i quali tutti gli uomini e le donne passano: l’essere generati, l’iniziazione degli adolescenti e dei giovani alla vita, la scelta vocazionale al matrimonio, al sacerdozio o alla vita consacrata, la professione e la fedeltà nella vita adulta, la fragilità, la disabilità e la malattia, le gioie e i lutti, l’esperienza della morte. «Lo scopo della catechesi degli adulti è proprio qui: portare il credente a una fede adulta e abilitarlo con la forza della Parola a prendere posizione – come profeta, sacerdote e re – dentro la storia, in modo da saper dire il valore delle cose secondo la volontà di Dio»[12]. Una catechesi evangelizzatrice è in stretto legame con i problemi della gente, fa spazio all’uomo concreto, lasciando ogni forma di indottrinamento e di visione pessimistica.
[12] Cfr. Ufficio Catechistico Nazionale, La Catechesi e il Catechismo degli Adulti, Ed. Paoline, Roma 1995, p. 4.
Assegnare il primato alla Parola di Dio: non esiste annuncio per gli adulti che non scaturisca dalla Parola e che non si traduca come risposta ai loro appelli. Annunciando, la Chiesa dice da dove essa nasce: dalla Parola ascoltata, celebrata e vissuta. Le prime comunità cristiane sono nate da esperienze di comunicazione, attorno ad un evento che ha fatto irruzione nella loro vita: Gesù Cristo; da parole profonde che un gruppo di uomini e donne si sono scambiate, parole rese possibili dalla Parola, dall’esperienza comune nel Signore Risorto. Questa esperienza originaria, torna a rivelarsi decisiva in un processo di nuova evangelizzazione. Essa comporta due risvolti: la necessità di puntare su nuclei piccoli, su comunità primarie, gruppi di intense relazioni interpersonali per avviare un processo di trasformazione evangelica; la consapevolezza che nulla sostituisce il rapporto di testimonianza e di annuncio da persona a persona.
Il parroco resta il primo responsabile dell’annuncio del Vangelo nella comunità, ma è impensabile che ne sia l’unico. Egli ha bisogno della corresponsabilità degli adulti, singoli e in coppia, che aiutino a far crescere nella fede altri adulti, curando la loro formazione. Va rafforzata, dunque, la scelta di una Chiesa animata dalla fiducia nei confronti dei ministeri laicali. Solo il superamento di un certo clericalismo (spesso inconsapevole e basato su buone intenzioni) permetterà di passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria.
Le parrocchie siano “esempio di apostolato comunitario”, e abbiano una certa “plasticità” che le renda capaci di una catechesi creativa “in ascolto” e “in uscita”. Le associazioni e i movimenti hanno una grande capacità evangelizzatrice che li rende una “ricchezza della Chiesa”, purché curino la loro formazione e rimangano nella comunione ecclesiale.
L’annuncio del Kerigma, la buona notizia della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, deve arrivare a tutti gli uomini di buona volontà. Persone non battezzate domandano di diventare cristiani; anche a chi non crede deve giungere l’annuncio del Vangelo di Gesù prospettando itinerari di catechesi specifici. Nell’annunciare pensiamo alla gente che proviene da altri Paesi, culture e differenti esperienze religiose, venuta tra noi per il bisogno di lavoro in flussi migratori che mescolano popoli e religioni. Anche per loro si devono prospettare itinerari di catechesi specifici. Nel contesto della nuova evangelizzazione non si può escludere un’attenzione particolare ai detenuti ed alle loro famiglie, soprattutto ai figli. In collaborazione col cappellano, mandato dalla comunità, si formino gruppi di volontariato che operino all’interno degli Istituti di pena ma anche all’esterno, istituendo momenti di catechesi con giornate di preghiera rivolte ai condannati e non, in attesa di giudizio, colpevoli ed innocenti.
La catechesi ai ragazzi e agli adulti deve favorire la formazione sui valori del sostegno economico alla Chiesa: trasparenza, corresponsabilità, comunione, perequazione. In ogni parrocchia siano fissati degli incontri per approfondire il sistema delle offerte liberali, dell’8 per mille e di come la Chiesa sostiene economicamente le molte attività grazie al sostegno di tutti.
I. La Chiesa
Popolo santo di Dio: formulazione teologica e traduzione teologale*
Il popolo di Dio è in cammino peregrinante nella storia verso il compimento della salvezza. Porta con sé la divina rivelazione del Dio uno e trino. Pienezza di questa rivelazione è Gesù Cristo, il quale è venuto nel mondo, Verbo fatto carne, per comunicarci la vita divina e mostrarci il vero volto del Padre(1).
La nostra Chiesa diocesana, in comunione con quella diffusa nel mondo, ha bisogno di riscoprire il suo essere Chiesa, salvata dal Verbo fatto carne, sempre pronta ad affrontare con coraggio le nuove sfide dell’umanità e in particolare della società del nostro territorio, per edificare il Regno di Dio e saper gioire e soffrire alla sequela del Cristo Crocifisso e Risorto. È necessario, quindi, camminare in un continuo e interiore sguardo di contemplazione soprattutto verso i tratti umani di Gesù, che ci aiutano ad essere sempre più Chiesa unita e accogliente.
Questa sequela deve partire dalla testimonianza chiara, evidente e leggibile fatta di trasparenza, tenerezza e semplicità. La nostra Chiesa della Piana, nel riaffermare la cultura della Vita che rifiuta nel contempo logiche mafiose, corruttive e di decadenza morale, ed il giustizialismo imposto dal mondo, è chiamata a farsi prossima di chiunque soffre. Nella certezza evangelica che in ogni fratello e sorella, attraverso l’esercizio diretto della carità, incontriamo il Corpo vivo del Signore.
Nello stesso tempo, sia come singoli che come comunità, ci interpellano alcune importanti sfide pastorali ad intra: carenza di fede matura; incoerenza tra fede e vita; mancanza di trasmissione di fede in famiglia; scarsa formazione cristiana dei fedeli; inadeguata formazione del clero; clericalizzazione dei laici; laicizzazione del clero; carente preparazione degli operatori pastorali; devozionismo e pietismo; parrocchialismo campanilista a discapito di un’azione diocesana comune; scandali e divisioni interne.
* Per ogni Proposizione viene riportata in tondo la formulazione teologica e in corsivo la traduzione teologale.
1) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, n. 2.
La Chiesa nella storia non è solo una società, ma opera trinitaria e Corpo mistico di Cristo(2). Innestata pienamente nel mistero pasquale di Cristo, affonda le sue radici nell’intero mistero trinitario. La storia teologica della Chiesa inizia, infatti, nell’atto stesso della creazione dell’universo, continua nella volontà di Dio di radunare gli uomini non singolarmente ma come popolo e nell’elezione di Israele. Questa medesima storia procede, poi, dopo la Pasqua, grazie all’opera dello Spirito Santo, che ricolma di doni la sua Chiesa ed ogni credente(3)
e li guida alla pienezza della statura di Cristo. «La Chiesa, già prefigurata sin dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo di Israele e nell’antica Alleanza e istituita negli ultimi tempi, è stata manifestata dall’effusione dello Spirito Santo ed avrà glorioso compimento alla fine dei secoli»(4).
È urgente, pertanto, rinnovare nella nostra Diocesi la centralità dell’incontro personale e comunitario con Cristo, attraverso l’ascolto della Parola e la vita sacramentale, per partecipare pienamente al mistero Trinitario di amore fonte della gioia piena. «Ed è dono e compito imprescindibile della Chiesa comunicare la gioia che viene dall’incontro con la Persona di Cristo, Parola di Dio presente in mezzo a noi. In un mondo che spesso sente Dio come superfluo o estraneo, noi confessiamo come Pietro che solo Lui ha “parole di vita eterna” (Gv 6,68). Non esiste priorità più grande di questa: riaprire all’uomo di oggi l’accesso a Dio, al Dio che parla e ci comunica il suo amore perché “abbiamo vita in abbondanza” (cfr. Gv 10,10)»(5)
2) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, nn. 2-4.
3) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, n. 5.
4) CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 2.
5) BENEDETTO XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, n. 2.
Il popolo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Trinità ne è il soggetto misterico e divino. La realtà ecclesiale di base è quella sacramentale; tale realtà poi si specifica in diverse vocazioni, alcune legate alla natura stessa della Chiesa e altre solo a certi momenti della sua storia.
Nella nostra Chiesa particolare deve essere riscoperto e rafforzato il senso comune dell’appartenere al popolo di Dio nella sua dimensione universale e diocesana: i membri di questo popolo si adoperino ad essere costruttori di ponti e non di muri: ponti tra i singoli componenti, tra le diverse generazioni, tra le differenti comunità con le loro radici e la loro storia.
La nostra Diocesi è impiantata in un territorio che tende al soggettivismo esasperato ed anche nella Chiesa faticano a manifestarsi realtà aggreganti, che diventano aiuto fraterno a vivere la quotidianità della vita cristiana.
La Chiesa è formata dal sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio. Tutto ciò pone le basi teologiche per un’ecclesiologia comunionale. È
necessario, per questo, camminare insieme con uno stile inclusivo mantenendo un atteggiamento di apertura e di collaborazione fraterna, pur nella legittima diversità dei doni e dei carismi, che non sono ostacolo ma ricchezza(6).
La nostra Chiesa deve puntare alla qualità relazionale, che non può prescindere dalla comunione spirituale e fraterna, affettiva ed effettiva, permeata di stima, fiducia e verità tra tutti i membri del popolo di Dio. La Chiesa diocesana potrà così svolgere la sua missione di annunciare il Vangelo in tutti i luoghi della società della Piana e con il suo influsso trasformarla dal di dentro, rendendola completamente nuova. Questa è la conversione necessaria perché la nostra Chiesa locale diventi segno visibile di Cristo. Perciò devono essere messe da parte, nella nostra mentalità e nel nostro agire, tutte le logiche che non favoriscono la comunione.
6) Cfr. FRANCESCO, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, nn. 226-230
L’universalità del popolo di Dio si manifesta in particolare nella Chiesa locale: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena ed attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri»(7).
A tal proposito, per vivere nel quotidiano e con maggiore consapevolezza ciò che si celebra nella liturgia, desideriamo rafforzare nella nostra Chiesa locale una conversione alla cultura della misericordia e del perdono reciproco per superare le tentazioni del prevalere dell’uno sull’altro e del perdurare nel tempo delle inimicizie che distruggono la comunione.
7) CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 41.